Il SUICIDIO POLITICO DEL PARTITO COMUNISTA ITALIANO

A metà degli anni Settanta le fortune politiche del Pci erano allo zenit. A sua disposizione: la prospettiva, tanto più forte perché indistinta (e perciò non falsificabile) della vittoria del socialismo e il mito dell’Urss; il suo ruolo di tribuno della plebe, a disposizione delle più diverse e magari contrastanti rivendicazioni; la sua assoluta centralità all’interno di un arco costituzionale, basato sul richiamo ai valori comuni della resistenza e della costituzione; e, infine, il grande insegnamento togliattiano: partito di massa, costruzione dell’egemonia, la profondità storica (“veniamo da lontano”) di un disegno centrato sulla prospettiva dell’unità tra le grandi forze popolari. Oggi, di tutto questo non è rimasto niente. Ma proprio niente. E lo testimoniano le cifre. Nel 1976, il consenso per le forze che rappresentavano l’arco costituzionale, raggiungeva il 95%; oggi l’idea stessa di difesa della costituzione è patrimonio di alcune minoranze illuminate. Nel 1976, il 50% degli italiani erano disponibili a sostenere un disegno alternativo, rispetto a quello rappresentato dalla Dc; oggi lo stesso concetto di alternativa, almeno a sinistra, sembra aver perso il suo significato e la sua capacità evocativa. Nel 1976, l’oggetto del desiderio del progetto di compromesso storico, la Dc, rappresentava, assieme al Pci, poco meno del 75% dell’elettorato; oggi i due sposi faticano a raggiungere il 20%. Ci si dirà che, nel frattempo, è cambiato il mondo: finiti il comunismo, il futuro, l’Urss, il ruolo di tribuno della plebe e quant’altro. Ma si potrebbe rispondere che nulla obbligava i comunisti a salire in fretta sul carro dei vincitori fino a farne proprie, senza se e senza ma, la visione del mondo e della società. Salvo a chiedersi se, a contribuire a quest’abiura, non sia stata proprio la convinzione tutta ideologica, che, per vincere, si dovesse automaticamente, adeguarsi al corso della storia. Il dibattito potrebbe continuare all’infinito. Ma fermiamoci qui. Perché quello che ci interessa qui non è il suicidio ideologico ma quello politico. Che, a differenza di quello, non è una reazione a catastrofi esterne ma è tutto, come dire, endogeno e cioè frutto di scelte politiche profondamente errate assunte peraltro in tutta autonomia. In questo senso si può essere in grado di stabilire quando “tutto questo è cominciato”. Siamo nel settembre del 1980. Il cadavere di Moro è ancora caldo. La Dc, con il preambolo Forlani, ha escluso la possibilità di governare assieme ai comunisti. I socialisti stanno per tornare al governo. E Pertini ha denunciato i ritardi e gravi episodi di corruttela nella gestione del dopo terremoto. Per il comitato centrale del Pci (i cui dibattiti e verdetti erano il pane quotidiano degli opinionisti di ogni ordine e grado) un appuntamento importante: per una analisi critica (e, quindi, necessariamente autocritica) delle ragioni che avevano portato alla fine dell’esperienza dell’unità nazionale; e nel contempo, per un aggiornamento della propria linea politica che ne salvaguardasse però gli obbiettivi di fondo. E, invece, nulla di tutto questo. Moro, morto con l’Unità in tasca (la statua di Maglie grida ancora vendetta al cielo), vittima non del partito della fermezza ma di potentati internazionali, disposti a tutto pur di impedire l’ingresso dei comunisti nel governo e dei loro complici italiani; il fallimento di questo disegno legato non già a normali ragioni politiche bensì alla resistenza dei corrotti di fronte al partito dell’onestà e della morale; la liquidazione frettolosa, e per colpa dell’Irpinia, della linea del compromesso storico. Era la demonizzazione definitiva del Psi. E , nell’insieme, anche della Dc, rimanendo l’appello alla sua “parte sana”. E, quindi, la messa al bando, insieme morale e politica, delle due grandi idee forza (arco costituzionale e dialogo costante tra le tre grandi forze popolari) su cui fondava la prima repubblica. Era la sostituzione del moralismo alla politica come fondamento della diversità comunista. Era la base molto fragile di un passaggio alla opposizione che escludeva sia l’alternativa che la politica delle alleanze. Era il berlinguerismo senza Togliatti. Cui sarebbe seguito, dopo la morte di Berlinguer e la sconfitta nel referendum sulla scala mobile, il berlinguerismo senza Berlinguer. Sarebbe stata, negli anni successivi la ricerca affannose di nuove figure e di nuove culture, tutte estranee, se non francamente ostili alle tradizioni, alla cultura e alle istituzioni della prima repubblica, sino alla sua stessa costituzione: dai “tecnici” agli “onesti”, dai fustigatori della “casta” a quelli della politica, dei partiti e del pubblico, dalla “società civile” ai popoli delle partite Iva, degli scontrini e di quant’altro. Lo sbocco finale e fatale di questo percorso, nella prima metà del 1993, sarebbe stato quello scegliere il partito di Repubblica alla repubblica dei partiti. Sarebbe stata, con la “gioiosa macchina da guerra”, l’entrata in mondo totalmente nuovo. Un mondo in cui gli ex comunisti pensavano di governare; mentre ne sarebbero stati travolti e distrutti. E noi con loro.