BUONGIORNO UN CORNO!, MARTEDI’ 3, IL FONDO DEL BARILE …

Se leggete con attenzione i giornali, i loro siti online, con un po’ di pazienza, scorrendo e scrollando che male ti fo, arrivando in fondo in fondo, ma proprio in fondo alle pagine, scoprirete che c’è persino qualche notizia che non riguarda il coronavirus! E’ incredibile vero? Ero incerto se condividere questa informazione perché ho pensato che magari era stata una svista, qualche caporedattore che voleva boicottare la propria testata aveva cospirato contro la cospirazione in corso, eppure è così: su un giornale ho trovato addirittura notizie sugli immigrati ai confini tra Turchia e Grecia, sul lavoro che non è vero che non c’è, sull’omicidio del ragazzo di 15 anni a Napoli. Ogni tanto qualche sprazzo di vita entra nei giornali, quell’umanità dolente e vera che non interessa più da tempo chi dovrebbe raccontarla viene narrata da un giornalista che non si arrende al peggio che ci circonda. Il paradosso è il tema dominante di questa rubrica, eppure stavolta siamo qui a denunciare come si crea il panico, non soltanto con il coronavirus a essere sinceri, investendo l’intero mondo dell’informazione e colonizzandolo, costringendo il lettore più smaliziato a ricredersi, a pensare che pur non conoscendo personalmente nessuno che abbia contratto il virus tutta l’umanità non pensi ad altro che al virus. Fino a dieci anni fa incontravo spesso persone, ragazzi e ragazze in particolare, che mi chiedevano consigli su come diventare giornalisti. Allora, come fanno i vecchi nonni, con la pazienza che a suo tempo altri anziani avevano avuto con me, gli raccontavo la favoletta della passione civile, di come il saper scrivere sia un accessorio importante ma non la parte centrale del mestiere di giornalista, di come occorra sviluppare un occhio attento, una sensibilità per catturare particolari della vita di alcuni che diventino motivo di interesse generale. Da qualche tempo invece quasi nessuno mi chiede più come si diventa giornalisti. Non solo perché la categoria ormai non offre quasi più dei posti retribuiti, ma proprio perché come funziona questo mestiere è davanti agli occhi di tutti. Entri in una redazione, trovi un pc, fai il giro degli altri giornali online, scopiazzi qualcosa, telefoni a un virologo, dai uno sguardo ai social, qualcuno che parla inglese, pochi, legge qualche giornale straniero da cui copiare qualche altro spunto, ed ecco qua che a fine giornata hai dieci articoli uguali su tutte le testate. Offendetevi quanto vi pare cari colleghi, ma a forza di non ribellarsi a questo sistema siamo, siete, diventati dei passacarte che non hanno più il coraggio di spezzare il circolo vizioso su cui ai convegni ci scagliamo con orgoglio. Se qualcuno, giovane, ha qualche notizia particolare, viene guardato con sospetto, le notizie che gli altri non hanno non sono più degne di quell’attenzione che prima faceva la differenza tra le testate, le rendeva concorrenti l’un l’altra. Insisto sul coronavirus. Che è un problema serio sia chiaro, ma quale dovrebbe essere il ruolo della stampa? Di capire e far capire la reale portata di un problema ai suoi lettori. Ripeto l’esempio di prima: conoscete personalmente qualcuno che abbia contratto il coronavirus, che sia infetto, che sia stato ricoverato in ospedale? Perché leggendo i giornali non ci sono dubbi sulla portata di un fenomeno che occupa i primi dieci articoli di ogni quotidiano. Eppure io e voi non conosciamo nessuno personalmente colpito, anche perché altrimenti non ci penseremmo un attimo ad andare a intervistarlo, a contattarlo, a farci narrare il suo dramma per offrire la dose di spavento quotidiano al lettore. Però nel percorso per uscire di casa e andare in redazione vediamo parecchie cose che non riteniamo interessanti per il lettore. Come quelle decine di persone che dormono per terra accanto al portone dove abitiamo, le centinaia che chiedono la carità, persone che stanno sull’autobus, un mezzo sconosciuto alla maggior parte dei giornalisti, per andare a fare le pulizie a 4 euro l’ora, giovani che stanno andando a scuola quando la trovano ancora aperta nonostante il coronavirus. Provate a leggere per esempio un articolo che riguarda un’operazione antidroga: “Il fortino della droga”, “sgominato il clan dei …”, “usavano bambini per nascondere la droga nel passeggino”. Tutti uguali, tutti basati su informative gestite direttamente dalle questure, con delle sciocchezze prive di qualsiasi riferimento alla vita pratica all’interno che chiunque abbia abitato almeno una settimana della sua vita in una borgata non può che ridere leggendole. Il giornalista è ormai un impiegato della notizia, un travet del flusso ammaestrato d’informazioni che vengono impaginate prima che avvengano, perché la linea del quotidiano di fine giornata viene decisa a tavolino già all’ora di pranzo. Se c’è un fatto di cronaca come l’omicidio del ragazzo di 15 anni a Napoli lo trovate inizialmente come notizia flash, tutte uguali, tutte riprese dall’Ansa, e soltanto 24 ore dopo qualcuno si prende la briga di approfondirle. La grande paura per il coronavirus, che, lo ripeto per la centesima volta, è un problema serio da non sottovalutare, l’abbiamo creata noi. Il panico è il nostro pane quotidiano, lo spavento, la paura, che fino a poco fa creavamo con “l’invasione degli immigrati”, è la fonte a cui riteniamo si debbano abbeverare i lettori. Sul tavolo del giornalista si accumulano notizie d’agenzia, le stesse per tutti, comunicati istituzionali, gli stessi per tutti, email delle commissioni parlamentari, le stesse per tutti. Non si deroga dalla missione principale: contribuire alla paura del mondo. Se fosse vero quello che si legge nei giornali sul coronavirus, non le notizie scientifiche ma le reazioni delle persone intendo, uscendo di casa o dalla redazione, dovremmo incontrare orde di infettati che, camminando meccanicamente con lo sguardo perso nel vuoto, tentano di morderci per contagiarci con il loro virus. Ma non è così e lo sappiamo. Viviamo dentro un grande fiction di cui siamo tragiche comparse. La mia speranza è che tutto ciò venga spazzato via senza pietà nel giro di pochi anni. Che chi vuole fare ancora questo mestiere apra un suo singolo blog o sito o miniredazione, non sottoposto al copione che viene distribuito a tutto il cast a inizio mattina. Che quando nelle scuole di giornalismo o nei festival fintamente alternativi il trombone di turno che guadagna almeno tremila euro al mese viene a denunciare lo “scandalo” di articoli pagati 5 euro, qualcuno gli chieda perché è proprio il suo giornale, che dà a lui tremila euro al mese, che paga 5 euro ad articolo. Che quando il trombone di turno viene a denunciare lo scandalo dei giornali tutti uguali qualcuno gli chieda conto di cosa ha scritto oggi il suo giornale. Oppure, senza nemmeno fare polemica, che nessuno vada più a queste celebrazioni liturgiche dei vecchi tromboni. Vedrete che tra qualche mese scoppierà la grande polemica sulle responsabilità della stampa nella diffusione della paura sul coronavirus. Con comodo, tra un annetto. A farci la predica saranno gli stessi che hanno riempito in questi giorni i giornali di notizie avventurose che diffondono il panico. Allora, avendo conservato la mentalità di quei vecchi redattori panzoni, personaggi che non cambiavano vestiti per venti giorni ma quando cominciavano a scrivere portavano davvero il mondo nelle case dei lettori, vi invito a conservare gli articoli di oggi, ad annotare i nomi di chi firma gli articoli oggi, per rinfacciare al trombone prossimo venturo quello che ha scritto lui in persona e non altri di cui parla genericamente. Perché c’è un limite alla pazienza di cui si può abusare presso il lettore, ed è evidente che la lezione del quasi azzeramento delle vendite dei giornali non è ancora ritenuta abbastanza per questa categoria di ottusi e leccapiedi di cui purtroppo faccio parte.