SEGNALI DAL CORONAVIRUS: CHI VINCE E CHI PERDE, CHI ANCORA NON SI SA

SEGNALI DAL CORONAVIRUS: CHI VINCE E CHI PERDE, CHI ANCORA NON SI SA

Qui l’annuncio, da ufficioso sta diventando ufficiale. Anche se detto ancora a mezza bocca. Non c’è solo la Lagarde a gettare la spugna e a restituire la palla agli stati. Ma c’è anche il fatto che negli uffici dell’Ue le previsioni economiche diventano, di giorno in giorno, sempre più pessimistiche. Agli inizi si prevedeva un calo limitato, qualche zero virgola in meno rispetto a quello che era già uno zero virgola; ora siamo già arrivati sotto allo zero e si continua a scendere. In questo quadro il superfalco Dombrovskis ci viene a dire, nel serafico linguaggio dei burocrati di Bruxelles, che “il patto di stabilità non è cancellato in linea di principio” – ci mancherebbe – ma “va flessibilizzato, in linea di fatto”. Del resto, nel patto stesso è stata inserita nel 2011 una clausola che, in caso di crisi generale, autorizza gli stati a prendere tutte le misure necessarie per farvi fronte. E possiamo essere ragionevolmente certi che questa clausola verrà ben presto formalizzata. Anche perché gli stati già si stanno muovendo come se il patto di stabilità e le sue regole non esistessero più. Alcuni, come l’Italia, continuano a coprire il tutto sotto la veste dell’emergenza sanitaria; altri, più sovranisti di noi forse perché più sovrani, come la Germania, mettono in campo investimenti massicci a sostegno dell’economia nazionale e, orrore, fanno intravedere la necessità di “nazionalizzazioni a sostegno della sovranità economica e tecnologica del paese” e, più banalmente, di “venire incontro alle imprese con problemi di liquidità”. Chi volesse poi vedere razionalizzato il nuovo corso, può sempre rivolgersi a Macron: “non possiamo delegare ad altri i problemi che ci riguardano”; “la disoccupazione parziale deve essere presa in conto dallo stato”; “la salute è fuori dalla legge del mercato”; e, infine, il grido liberatore di Fantozzi, “mai creduto all’ortodossia finanziaria”. Insomma i buoi sono scappati dalla stalla. Difficile pensare che vi possano rientrare. Anche perché non avranno la minima intenzione di farlo. Finora le merci possono ancora circolare liberamente. Ma non quelle trasportate dai camionisti in giro per l’Europa, sottoposti, a partire dal Brennero, a controlli estenuanti e interminabili. Ma, per le persone non c’è scampo. La chiusura delle frontiere una volta praticata per affrontare il contagio italiano, è oggi adottata da tutti e nei confronti di tutti. Qui le esigenze di carattere sanitario non c’entrano per nulla. Come ha più volte ricordato la stessa Oms; fatto opportunamente ricordato dalla Von der Leyen. Di più, qui vengono esplicitamente e volutamente violate le regole di Schengen secondo le quali controlli prolungati alle frontiere possono essere consentiti solo se preventivamente autorizzati e coordinati; due prescrizioni che nel nostro caso sono state volutamente ignorate. Una scelta, questa, che, sia pure in contesti e con obbiettivi diversi, ha la stessa motivazione: preservare la comunità (che si tratti di ambiente, di sistemi di welfare, o di “civiltà”) dal nemico esterno. Una reazione perfettamente sintetizzata nelle parole di Orban : “la malattia nasce dalla mobilità; chi vuole entrare lo fa in nome della mobilità; il migrante è la malattia”. E una reazione oggettivamente condivisa dalla stessa Germania: da sempre paladina di Schengen; ma che oggi chiude le frontiere con tutti i paesi vicini. Una volta i migranti erano di un’altra religione o avevano la pelle scura; e venivano da lontano. Oggi sono cristiani e bianchi; e vengono da altri paesi d’Europa. Ma il principio è lo stesso. Ed è un principio che contesta in radice non solo l’Europa di Schengen, di Maastricht o di Bruxelles. Ma il progetto europeo nel suo significato più profondo e condiviso. Anni fa, gli uffici dell’Ue organizzarono un grande sondaggio tra i giovani di tutta Europa; per capire che cosa evocasse per loro questa parola. La stragrande maggioranza rispose, “la libertà di viaggiare e la pace”. Allora, si considerava tutto ciò come un orizzonte acquisito una volta per sempre; ma oggi? Un tempo, ogni qualvolta ci si trovasse di fronte ad un problema difficile da risolvere, la risposta d’obbligo era sempre la stessa: “il problema può essere risolto solo a livello internazionale”, eccetera eccetera. Oggi, chi si azzardasse a ripetere questo mantra verrebbe ignorato o, peggio, preso a selciate. Perché non solo tutte le istituzioni internazionaliste, nessuna esclusa, o non vengono chiamate volutamente in causa o si dichiarano impari a svolgere il loro ruolo; ma non si vedono all’orizzonte associazioni di stati in vista del raggiungimento di obbiettivi comuni. Almeno qui e oggi. Ho seguito per un attimo, la sera di domenica la Tv francese. Si era appena svolto il primo turno delle elezioni municipali francesi e mi interessava sapere “com’era andata”. I giornali francesi avevano dedicato al tema pagine su pagine; e i politici, Macron in testa, avevano ritenuto una questione di principio lo stesso fatto di svolgerle, nonostante tutto. E giornalisti e politici erano lì per commentarne l’esito. Ma si è parlato di tutt’altro. A partire dal fatto che il secondo turno delle elezioni previsto per la domenica successiva sarà sicuramente annullato.; e che quindi commentare i risultati del primo non aveva più alcun senso. Per i comuni una situazione oggettiva di incertezza e di paralisi; per i presenti l’obbligo di parlare del coronavirus e delle misure adottate dal governo per combattere il contagio (mentre al disotto scorrevano i risultati; ma scritti in piccolo e visti velocemente al punto di non capirci alcunché). Un nuovo universo, in cui scompaiono i temi del confronto politico tradizionale; e i cui protagonisti non sono più i partiti ma l’esecutivo e i suoi oppositori. Il primo a spiegare, in diretto rapporto con il pubblico, le misure adottate e la strategia in cui si iscrivono; l’opposizione a gridare “più uno” e a denunciare, quando le conviene, la sospensione della democrazia. In tempi normali, una partita che vince quasi sempre la seconda. Ma questi non sono tempi normali. Ma momenti di una crisi ancora tutta aperta in cui torna in campo il principio di autorità e il valore della decisione; mentre non è affatto apprezzato chi pensa di utilizzare la crisi a proprio vantaggio. Naturalmente, anche il futuro della democrazia è tutto da scrivere. Ma basterà, in questa fase, la presa di coscienza che questa partita non si riassume nell’appuntamento elettorale; specie quando questo è visto come una specie di giudizio di Dio. Ma dipenderà dagli orientamenti individuali e collettivi delle persone. Qui la rivoluzione in atto, ieri e oggi in Italia, oggi e domani in Europa, domani negli stessi Stati Uniti è di tale intensità e importanza da non avere bisogno di illustrazioni e commenti particolari. Basterà dire, allora, che siamo di fronte ad una percezione generale e di tipo esistenziale: leggi alla constatazione che la sopravvivenza di una società solidale degna di questo nome è legata alla consistenza e alla qualità delle sue strutture collettive. Una rivoluzione copernicana rispetto a un universo dominato dall’individualismo e dal privatismo; e che molto probabilmente si andrà consolidando in futuro. Ho scritto “rivincita” per stare nello schema. Ma avrei dovuto scrivere “riconoscimento”. Qui da qualche tempo le cose non andavano affatto bene. Perché eravamo condannati alla solitudine (chi è quel… che ha cominciato a dire “singolo è bello”?); perché venivamo sempre più considerati come un peso per la società e, in quanto tali, rappresentati come nemici dei giovani; perché vivevamo una condizione esistenziale impossibile da modificare; e, infine e soprattutto, perché tutto ci faceva sentire inutili, a partire dalla incapacità di padroneggiare le nuove tecniche di comunicazione. Ora siamo tornati al centro dell’attenzione. Perché siamo il bersaglio del coronavirus. E tutto, per miracolo, si costruisce intorno a noi per difenderci: dalle raccomandazioni del governo sino alla riserva di posti letto nei reparti di terapia intensiva. Attenzioni di cui siamo profondamente grati. Ma, anche adesso, il nostro disagio esistenziale rimane intatto. Per la perdita di contatti umani. Per la sensazione di rubare agli altri uno spazio che dovrebbe continuare ad appartenergli (in Francia c’è una commissione etica a stabilire chi, in terapia intensiva, deve lasciarci il posto al malato da coronavirus ) all’interno di un sistema sanitario non costruito a misura di anziano. Di oggi; ma, ancor più, di domani. Ma, tutto sommato, non è affatto detto che, passata la crisi, tutto ritorni come prima; a partire dalla testa delle persone. Ne riparleremo… Qui la frattura è netta: e passa tra Europa e Stati Uniti, mentalità europea e mentalità anglosassone, etica cattolica ed etica calvinista. E, a ben vedere, al di là di questa o quella specifica misura, ha a che fare con la natura stessa dell’emergenza da affrontare. Qui da noi c’è l’emergenza sanitaria. Di qui l’attenzione alle verifiche e ai controlli; la priorità alle spese per venire incontro alle esigenze del sistema sanitario; la considerazione del coronavirus come minaccia straordinaria. A Washington e a Londra, quasi nessun controllo sulla stessa entità della malattia (per dirne una, il governo centrale ritiene che i malati o comunque positivi al tampone nell’Ohio siano 5; mentre per il governatore dello stato parla di 200 mila); investimenti e sgravi fiscali destinati alla crescita di entità senza precedenti, quasi nulla per rafforzare il sistema sanitario e la possibilità di farvi ricorso; e, infine, visione del coronavirus come una malattia come le altre, che farà magari anche molte vittime ma che è destinata comunque a scomparire dalla scena senza alterare i naturali equilibri del sistema. Vi risparmiamo, a questo punto, ogni ulteriore considerazione sulla filosofia ultraliberista alla base di tutto questo. Per sottolineare, e in una prospettiva a breve termine, che i due sistemi non possono coesistere; e non solo perché tra loro incompatibili. E che la vittoria dell’uno sull’altro dipenderà, rieccola la democrazia, dal giudizio dei cittadini. Il giorno del giudizio non è molto lontano: che avvenga alla fine della pandemia o nella sua fase più drammatica. E definirà il nostro futuro. La sinistra, attualmente, non esiste. Perché ha vissuto, per decenni, dando per scontata la vittoria del capitalismo globalizzato: e non importa se per sedercisi sopra o per maledirlo verbalmente. Ma oggi siamo arrivati a uno di quei passaggi drammatici della storia in cui tutto è rimesso in discussione; e in cui occorre riscrivere un nuovo patto con la democrazia e con lo stato di cui però non si intuiscono ancora i contorni. Ora un nuovo patto ha bisogno di nuovi interlocutori. E per essere tali bisogna “capire e cogliere il momento”: per questo serve una riflessione collettiva; nulla di più ma anche nulla di meno.