RAVENSBRÜCK, GUARDANDO SAN MARCELLINO

RAVENSBRÜCK, GUARDANDO SAN MARCELLINO

Raccontino della notte. L’altra notte faticavo a prender sonno. Pensieri su pensieri. Dalla finestra della sala da pranzo-redazione ho ammirato il mio Torrazzo Tricolore. Poi, sono tornata sul piccolo balcone, quello che dà su San Marcellino. Buio e silenzio. Pensieri su pensieri. La memoria mi ha riportato all’aprile del 2006, al viaggio della memoria (in auto con Giuseppe Torchio, allora presidente della Provincia), a Ravensbruck (con la dieresi sulla u, ma sulla tastiera del pc non la trovo, perché sono imbranata). Ravensbruk, letteralmente ‘ponte dei corvi’, l’orrore nazista declinato al femminile. Ravensbruck, villaggio prussiano a 80 chilometri a nord di Berlino, è il campo di concentramento per sole donne. Venne aperto nel maggio del 1939 e fu liberato dall’Armata Russa il 30 aprile del 1945. Da qui vi passarono 132mila donne provenienti da venti nazioni, soprattutto tedesche, italiane, polacche, francesi, austriache e russe. Erano donne con disabilità fisiche e mentali, oppositrici politiche, omosessuali, mendicanti, rom, prostitute, testimoni di Geova, solo il 10 per cento di origine ebraica. Erano le «reiette». Era, Ravensbruck, l’unico campo di concentramento progettato dal Reich per eliminare le donne che avrebbero potuto contaminare la ‘razza ariana’. Mi ricordo le celle suddivise per nazione, con le fotografie delle prigioniere. E, poi, la rosa, il fiore che ricorre nei disegni, nei bigliettini scritti di nascosto per sentirsi persone. Ed unite. Mi ricordo la camera a gas. La Minnie dice che io sono una tosta di carattere. È vero. Ma sono anche una dalla lacrima facile. Ho pianto di nascosto, quella volta a Ravensbruck. Avevo pianto di nascosto un mese prima, quando il giornale mi mandò in Afghanistan, a Kabul prima, ad Herat dopo. E continuo a piangere. La notte è passata così e così. La mattina, doccia, caffè, anzi, prima il caffè, perché, ancora mezza assonnata, devo riconnettermi con il mio piccolo mondo, anche se dall’inizio di questa guerra disumana, riconnettermi mi costa. Poi, la doccia e la fugace uscita a comprare i giornali per la Minnie nell’edicola sotto casa. Sulla soglia della porta ho incontrato un’amica, l’ennesima figlia disperata. Domenica, l’invisibile bastardo si è portato via il suo papà, 72 anni e una salute di ferro. Un papà e un nonno meraviglioso di un bambino meraviglioso, come lo sono tutti i nonni e i bambini. «Papà non lo vedevo dal 23 febbraio», mi racconta. Prima in casa con i sintomi, quattro giorni dopo, il ricovero all’ospedale Maggiore. Dal 5 marzo, il suo papà combatteva alla Poliambulanza di Brescia. E da lì la rassicurava: «Stai tranquilla, non ti lascio». Alle 8 del mattino, di ogni mattina, lei telefonava su, in Poliambulanza. «Io non ce la faccio. Perché? Io rivoglio il mio papà». Mi spiega di essersi interessata in Comune per la cremazione. «Gli uffici sono chiusi, non so come fare». Era disperata. Indossava la mascherina, la indossavo anch’io. Abbiamo pianto insieme, a due metri di distanza, la mia rabbia e il mio dolore centrifugati insieme, perché non potevo neppure stringerla forte a me. Sono tornata nella sala da pranzo-redazione ad organizzare il mio lavoro. Prima, qualche telefonata, qualche messaggio agli amici ricoverati o che hanno familiari ricoverati. Il pensiero torna alla Germania: Colonia, stavolta, dove cureranno pazienti cremonesi. Riguardo il video con il discorso del premier albanese, Edi Rama, salutando all’aeroporto di Tirana un team di 30 medici ed infermieri già qui in Italia. «Non siamo senza memoria, l’Italia ci ha salvato e accolto». Guardo un altro video, mi è arrivato su WhatsApp. È stato girato a Whuan. I cinesi di nuovo in strada, mascherine e telefonini, salutano i bus con i medici che lasciano la città. Il cielo si fa grigio, c’è vento, ancora sirene. Il meteo dà pioggia su Cremona. Mi sono detta: «Anche il cielo piange». Scusate il disturbo.