GIAN MARCO TOGNAZZI RACCONTA LA SUA SCELTA DI VIVERE IN CAMPAGNA

GIAN MARCO TOGNAZZI RACCONTA LA SUA SCELTA DI VIVERE IN CAMPAGNA

“Mi dicevano che ero uno stolto, a finire a vivere in campagna. Adesso mi dicono ‘beato te’, ‘che fortuna hai avuto’, ‘magari potessimo’… Ma la mia è stata una scelta, una scelta a volte dura, che mi ha tenuto fuori da molte cose. Ma l’ho voluto io, anche quando sembrava folle. Adesso sì, stare qui in campagna è una benedizione”. Raggiungiamo Gian Marco Tognazzi al telefono nelle campagne di Velletri. Dove vive nella casa che era di suo padre, la “Tognazza”. Dove fa con infinita cura il viticoltore, e coltiva la memoria, il ricordo di suo padre Ugo. “Mi fa sorridere, quando adesso si lamentano perché sono costretti a casa, quando dicono di annoiarsi”, dice. “Io lo so di essere un privilegiato, non lo nego: ho un campo dove andare, e c’è chi non ha un balcone. Ma è tutta la vita che ci lamentiamo di non avere mai un minuto per fermarci, per mettere a posto quelle foto di famiglia, per riordinare i vecchi dischi, per tirare fuori quel libro che volevamo leggere da anni. Beh, ora è il momento. Il momento di fare tutte quelle cose che avevamo lasciato in sospeso. Ci lamentiamo sempre che non possiamo fermarci, che dobbiamo girare come trottole: adesso è lo Stato che ci impone di fermarci. Non dobbiamo neanche avere sensi di colpa: fermiamoci, e facciamo qualcosa a cui teniamo veramente”. Una delle cose a cui Gian Marco tiene molto sono i video delle interviste, delle apparizioni televisive, i filmini familiari girati da suo padre Ugo, indimenticabile protagonista della stagione più felice del nostro cinema, quella della commedia all’italiana. Ugo è morto esattamente trent’anni fa, dopo aver consegnato il suo talento a innumerevoli film: “Il federale” e “La voglia matta” di Luciano Salce, “I mostri” di Dino Risi, “La grande abbuffata” di Marco Ferreri, “La califfa” di Alberto Bevilacqua, fino ad “Amici miei” di Monicelli. Anche Gian Marco, 53 anni, figlio di Ugo e di Franca Bettoja, fratello di Ricky e Maria Sole, di film ne ha interpretati molti: quelli in coppia con Alessandro Gassman – altro figlio d’arte –, poi “Romanzo criminale”, “Bella addormentata” di Bellocchio, “A casa tutti bene” di Muccino, fino all’ultimo film di Christian De Sica, “Sono solo fantasmi”. Ma il suo cuore è tutto per la Tognazza, la tenuta di Velletri dove distilla vini dai nomi inequivocabili: “Antani”, “Conte Mascetti”, “Tapioco”. Tutte citazioni di “Amici miei”. Dovesse indicare, di suo padre, una qualità su tutte, quale sarebbe?“La capacità di rischiare. Ugo si prendeva più rischi di tutti: passare dalla commedia al cinema d’autore, alle follie di Marco Ferreri. Sapeva giocare con le parole, essere patetico, straziante, grottesco, malinconico, tragico, surreale. Rischiava, nel cinema come nelle ricette di cucina che inventava. E anche lì, non si ripeteva mai”. Anche lei ha percorso una lunga strada nel cinema…“Sì, senza un centesimo del talento di Ugo. E anche il cinema adesso è diverso. Forse adesso una storia come quella che hanno scritto lui, Gassman, Manfredi, Sordi non sarebbe possibile”. Lei ha girato con registi anche grandissimi come Woody Allen in “To Rome With Love”. In questi giorni si torna a parlare di lui, per l’autobiografia che ha pubblicato. Come lo ricorda?“Sono stati solo pochi giorni, ma a tu per tu con un genio. È un uomo di una meticolosità ossessiva, e questo me lo ha fatto amare: abbiamo un punto in comune! E poi, la sua normalità, la sua semplicità nel porsi: come se mi conoscesse da sempre. Registi che non hanno un millesimo del suo valore se la tirano mille volte di più”. In questi giorni ha avuto ottimi ascolti su Raitre “Passeggeri notturni”. Un format nuovo: dieci episodi di 15 minuti su Raiplay diventati un film tv. Ce lo spiega?“E’ un esperimento che ha funzionato molto bene. Da alcuni racconti di Gianrico Carofiglio sono nati dei brevi episodi per Raiplay, poi ‘montati’ in un film per la tv, in cui si legavano insieme. Io sono un poliziotto, diverso dagli altri che ho interpretato in precedenza: tutta la serie è molto introspettiva, raffinata. I protagonisti sono Nicole Grimaudo e Claudio Gioè, attore straordinario e amico carissimo, con cui ho condiviso gli esordi. Un ragazzo generoso amabile”. Qual è la peculiarità di questi episodi?“I personaggi sono più raffinati, interiorizzati, sottili di quello che potremmo mai immaginare. Forse anche per questo gli ascolti su Raiplay sono stati altissimi. Stiamo già pensando al seguito”. Era come un lungo film anche la vita in casa Tognazzi…“Un film che aveva i volti di Pier Paolo Pasolini, di Gianni Rivera, di Diego Abatantuono, di Paolo Villaggio, di Mario Monicelli”. Un film che si replicava ogni venerdì…“Sì, con le cene dei cosiddetti ‘Dodici apostoli’. I frequentatori più assidui di casa nostra. Ugo cucinava, creando piatti mai visti prima. E c’erano dei voti segreti. Si andava da ‘ottimo’ fino alla parola che usa Villaggio per descrivere la Corazzata Potemkin”. Una volta riusciste a fare arrabbiare Ugo. Come?“Ci mettemmo tutti d’accordo per scrivere, tutti quanti, che il piatto a cui Ugo teneva di più era una… Corazzata Potemkin pazzesca. Lui quando lesse i giudizi non credeva ai suoi occhi, era furioso”. E’ vero che “La grande abbuffata” nacque a casa vostra?“Certamente. Marco Ferreri immaginò una cena grandiosa e tragica vedendo queste cene pantagrueliche del venerdì. Così nacque ‘La grande bouffe’…”. Torniamo a questi giorni sconvolgenti. Che cosa la ha colpita di più?“Il fatto che tutto l’Occidente si sia fatto trovare impreparato. Prima abbiamo guardato i cinesi come dei poveri sprovveduti, e adesso sono loro a guardare noi così. L’aveva già detto Bill Gates dieci anni fa: sarà una pandemia il pericolo numero uno per il mondo. Questa tragedia è una lezione al mondo, all’Oms e anche all’Europa, di cui ormai non ho capito il senso, perché se l’Europa esiste, è in occasioni come queste che deve prendere una decisione unica. E l’Europa avrebbe dovuto avere una banca di tamponi, di reagenti, di mascherine. Non poteva farsi trovare così impreparata”. Che cosa la indigna?“Ci è stato chiesto un sacrificio tutto sommato semplice: rimanere in casa. E scopri che ci sono sempre quelli che ‘io sono più forte degli altri, più furbo degli altri’, che rischiano di allungare i tempi di questo dramma. Perché siamo tutti abituati a ragionare sull’ ‘io’ e non sul ‘noi’. Invece, basterebbe rispettare le regole, pensando che siamo già fortunati: c’è chi muore”. Per chi teme, delle persone vicine a lei?“Per mia madre Franca, che ha 84 anni; per i miei figli Andrea Viola e Tommaso. Thomas, il mio fratello norvegese, invece l’ha presa, ma sta guarendo”. La noia è il grande nemico di molti. Non per lei.“No, ma… dico io, ma se eravamo negli anni ’70, senza telefonini, senza internet, senza Skype, senza Youtube, senza Netflix, con un canale solo tv e in bianco e nero, che dovevamo fa’, spararci? Fino a un mese fa eravamo tutti con la faccia dentro il telefono, a nessuno importava niente degli altri. Ora sembra che tutti vogliano vedere in faccia le persone, ma fino a ora se ne fregavano. Diciamo le cose come stanno!”. Che cosa impareremo, secondo lei?“In questa tragedia – che è una tragedia, e niente potrà farla essere meno straziante, per tutti quelli che hanno perso i loro cari senza poterli nemmeno salutare – spero che impareremo a essere meno presuntuosi. Ce ne siamo accorti che non c’è più lo smog nella pianura padana? Che a Venezia l’acqua è incredibilmente chiara, come non accadeva da un secolo? Avevamo bisogno di una pandemia per capire che si può vivere meglio, in modo più sostenibile, meno scellerato, meno devastante per l’ecosistema e per noi?”. Lo capiremo?“E’ una lezione che Dio, o la natura, o il destino ci stanno dando. Se non verrà raccolta, l’uomo merita di estinguersi”.