LE VERITÀ. KORE’EDA APPRODA A PARIGI PER RACCONTARCI DI MASCHERE, MISTIFICAZIONI E SMENTITE

Sbarca nella città d’Oltralpe il regista giapponese noto per le sue pellicole di stampo esclusivamente orientale, e lo fa portando con sé tutto il suo bagaglio di cinema dei sentimenti, del dialogo, dell’introspezione. Ma il viaggio nell’Europa dei giorni nostri lo porta a perdere parte di quell’aura tipica dei film provenienti dalla sua terra, spesso connotata da sguardi accompagnati da lunghi silenzi, gesti che si sostituiscono alle parole, movimenti coscienti che raccontano moti interiori. “Le verità” somiglia più a un moderno dramma francese che a quelle pellicole con cui il pluripremiato autore ci aveva abituato, e forse anche un po’ viziato. La freschezza ingenua con cui affrontava tematiche profonde mettendo in scena situazioni quotidiane, lasciando che fosse il pubblico a ricavarne il messaggio sotteso, lascia posto a un melodramma forse un po’ troppo spiegato rispetto ai suoi standard, a tratti perfino farraginoso. La spontaneità del “voler semplicemente raccontare una storia” viene, quindi, rimpiazzata dalla consapevole volontà di trasmettere un messaggio, a discapito del filo della narrazione che rischia di perdersi continuamente. Fabienne Daugeville (Catherine Deneuve) è una celebre diva del cinema francese, non più giovane, ma ancora attiva, che ha appena pubblicato la sua autobiografia. La figlia Lumir (Juliette Binoche) coglie l’occasione per andare a trovarla a Parigi, insieme al marito Hank (Ethan Hawke) e alla piccola Charlotte. Lumir si è, infatti, trasferita a New York, dove lavora come sceneggiatrice, e la breve vacanza diviene un’occasione per far uscire atavici conflitti, mai del tutto risolti, nel rapporto tra madre e figlia, dove quest’ultima accusa l’attrice di aver sacrificato i propri affetti in nome della carriera. Il film si presenta come un continuo rimando a giochi di verità e mistificazioni, dove non si capisce fino in fondo chi sia sincero e chi stia mentendo, chi, pur mentendo, lo faccia intenzionalmente e chi sia vittima di un meccanismo di distorsione della realtà. Ma sembra che al regista giapponese poco interessi scoprire quale sia la verità – e addirittura sembra volersi interrogare sulla sua reale esistenza – poiché, laddove intervengono dinamiche di rapporto interumano, la realtà sembra non avere importanza: ciò che conta nelle relazioni è, infatti, la cosiddetta verità interna, ovvero quella realtà che ognuno costruisce nel proprio animo in seguito ai propri vissuti, fatti di illusioni e delusioni, certezze e frustrazioni. E allora sarebbe il caso di sostituire la parola “verità” con la parola “identità”, che quanto più è fragile e inquinata da conflitti interiori dovuti soprattutto a speranze disattese, tanto più la realtà diviene qualcosa di lontano e imperscrutabile. Si dimentica chi si è, e si perde, in questo modo, la capacità di vedere chi ci sta di fronte. E allora entrano in ballo altri tipi di identità, lontane da quella vera e più profonda; si indossano maschere, e come in un infinito gioco di mistificazioni pirandelliane, incapaci di mostrare la persona, si porta in scena il personaggio. Fabienne, tornando alla trama, è una grande attrice, ma era stata in grado di smettere di esserlo nei momenti in cui era con Lumir? Riusciva la grande attrice a mettersi da parte per lasciare posto alla madre? E Lumir, divenuta madre a sua volta, riusciva a smettere di essere figlia per poter finalmente comprendere la madre e riconoscerla anche negli errori commessi? Con un balzo di svariate migliaia di chilometri Kore’eda si allontana dal proprio cinema, e non solo, come già detto, da un punto di vista geografico. Ma a voler ben guardare, l’interrogativo sull’importanza della verità rimane una costante nelle sue pellicole, caratterizzate dal continuo contrasto tra realtà biologica e realtà umana, come quando ci mostra la contrapposizione tra famiglie scelte e famiglie naturali, genitori adottivi e genitori biologici. Con un continuo invito a non smettere mai di inseguirla, il maestro ci mette continuamente in guardia da quella che ci viene raccontata come verità, obbligandoci a distinguerla da quella a cui dovremmo continuamente anelare nella nostra incessante ricerca.