LAVORARE MENO, LAVORARE TUTTI. PER BATTERE LA CRISI.

Si fa un gran parlare, in questi giorni di consultazioni per un possibile nuovo governo, dei famosi otto punti e delle misure urgenti da prendere per fronteggiare la crisi. Tra le varie proposte ve ne sono di valide ed utili, ma nessuno ha ancora mai proposto di istituire una legge che consenta il recupero, da parte dei lavoratori, delle aziende in fallimento, facilitando la costituzione di vere e proprie cooperative di impiegati( non le finte cooperative che stanno prolificando in questi anni come foglie di fico per il precariato!). Proposta questa, che permetterebbe di arginare i pesanti danni che il nostro tessuto produttivo sta subendo dall’inizio della crisi, e da quando le delocalizzazioni sono in vertiginoso aumento. Alcuni potrebbero obiettare, i lettori di “Libero”ed “Il Giornale”in particolare, che questa “è roba da Unione Sovietica”. Niente di più assurdo, innanzi tutto perché nella Russia post-rivoluzionaria i lavoratori ebbero il controllo solo formale delle aziende, senza mai concretamente controllare la produzione, l’organizzazione ed i ritmi di lavoro, che invece erano stabiliti dall’alto, dai burocrati di regime. Oltre a ciò, la cosa più importante da notare sarebbe che questo non comporterebbe alcuna limitazione della libera concorrenza, alcuna statalizzazione forzata, nessun piano quinquennale. Per trovare esempi simili inoltre non è necessario arrivare al Chapas del sub comandante Marcos o alla Jugoslavia di Tito, basta fermarsi a Trezzano sul Naviglio, in provincia di Milano. In questa fabbrica, fino a qualche anno fa lavoravano oltre trecento persone, che si occupavano della progettazione di tubi per impianti di climatizzazione delle automobili, venduti a grandi colossi come Fiat e Bmw. Nei primi anni Duemila iniziano le prime delocalizzazioni che portano interi rami d’azienda in Paesi dove si può assumere manodopera a basso costo(bassissimo!). Si ha per un periodo l’illusione che un gruppo di investitori polacchi possa rilevare lo stabilimento, i quali riassumono solo 80 dei 320 lavoratori della Maflow, per poi riandarsene dall’Italia appena due anni dopo. E’ a questo punto che inizia l’occupazione della fabbrica, fino ad arrivare, nel marzo 2013 alla costituzione di una cooperativa, denominata Ri-Maflow che si occupa di riciclo di materiali. I lavoratori stanno ora seguendo corsi di formazione presso la Regione Lombardia, tentando nel frattempo di convincere i proprietari del capannone, che altrimenti andrebbe in disuso, a poter pagare un affitto simbolico, restando fuori dai prezzi di mercato. Di situazioni simili a questa ce ne sono molte nel mondo occidentale, anche con il caso della Inss di Milano nell’agosto 2009 sembrava si stesse avviando verso una soluzione simile, quando dopo giorni di protesta dei lavoratori, arrampicatisi sul carroponte della fabbrica, le istituzioni e gli enti locali trovarono un compratore. Le fabbriche autogestite, ed addirittura i ristoranti gestiti in questa maniera, stanno proliferando anche nella Grecia di questi anni devastata dalla crisi economica. Nella città egiziana di Port Said, ad essere in mano ai lavoratori, oltre ad alcune fabbriche sono dei piccoli negozi di alimentari e dei panifici, persino la polizia municipale ed i servizi di sicurezza sono gestiti dai cittadini. Ma uno dei più grandi esempi di recupero delle fabbriche fallite ed abbandonate si è avuto in Argentina a partire dal 2001, dopo che il paese ha dichiarato fallimento. Ad iniziare sono stati i lavoratori della fabbrica di ceramiche Zanon, i quali in seguito alla chiusura della loro azienda, decidono di occupare i capannoni e qualche giorno dopo di provare a far ripartire la produzione. Tutto ciò sotto il controllo operaio, con decisioni prese durante le assemblee dei lavoratori, nelle quali il voto di ognuno vale uno. Dopo messi di lotte e sgomberi subiti, questa esperienza viene finalmente riconosciuta legalmente, il municipio di competenza sancisce l’espropriazione della fabbrica ed il suo passaggio in proprietà alla cooperativa FaSinPat( fabbrica sin patrones). In questi anni la Zanon, rispetto alla gestione padronale, ha aumentato sia la forza lavoro, passando da 300 a 450 operai, sia la produzione. Lo ha fatto senza alcuna sovvenzione statale di cui invece beneficiava la proprietà precedente, in una situazione di crisi economica e facendo quadrare i bilanci, riuscendo addirittura a reinvestire gli utili in opere pubbliche per il quartiere. Dopo l’esperienza Zanon, in Argentina ha preso piede un vero e proprio movimento per le fabbriche recuperate che al giorno d’oggi comprende oltre 200 aziende e circa 15.000 lavoratori. Esperienze come queste e come quella dell’Ifoa di reggio Emilia, dove i dipendenti si decurtano orari e buste paga per far assumere decine di lavoratoti precari, dimostrano che la soluzione alla crisi potrebbe non stare nel fare ulteriori, massacranti sacrifici, ma nella solidarietà e nell’equità. Sta a vedere che non aveva tutti i torti, chi, negli anni ’70 urlava lo slogan “lavorare meno, lavorare tutti”.