INTERVISTA A ALESSANDRO HABER

“E’ come stare in una stanza al buio, senza sapere dov’è l’uscita. Li vivo così, questi giorni. Mi viene in mente la frase eterna di ‘BladeRunner’, quella del replicante Rutger Hauer: ‘Ho visto cose che voi umani…’: ecco, mi verrebbe da dirgli ora: ‘Ho visto cose che voi alieni non potreste immaginarvi’. Abbiamo superato anche la fantascienza”. Raggiungiamo Alessandro Haber al telefono, nella sua casa a Roma. “Io sono fortunato, mi affaccio e vedo il Tevere, lo guardo e mi consola. Ma penso ai miei colleghi più giovani, quelli che iniziano adesso, quelli che non hanno una lira, come non ne avevo io. O anche a quelli della mia età meno fortunati di me. Mi sento in colpa per tutti quelli che soffrono, per tutta l’umanità”. Alessandro Haber è un sentimentale. Anarchico, ruvido, arruffato, scomodo – a persino per se stesso. Con un grande talento, disseminato in decine di film, di spettacoli a teatro, persino di canzoni: Francesco De Gregori l’ha scritta per lui, “La valigia dell’attore”. E in quella valigia c’è molto di lui. Alessandro, attore errante, sempre senza un centro di gravità permanente. È incline al pianto, Haber, in questi giorni. “Non per me, io sono del 1947, una vita l’ho vissuta. Ma penso alle generazioni successive, penso a mia figlia”. Sua figlia Celeste, l’amore della sua vita, nata nel 2004 dalla sua relazione con Antonella. Celeste adesso vive con la madre. Quando l’ha vista l’ultima volta?“Sono fortunato: l’ho vista ieri, ma da lontano. Antonella mi aveva preparato delle cose da mangiare, io sono un disastro in cucina. Le ho salutate tutte e due, senza avvicinarmi. Celeste mi ha detto ‘ho voglia di abbracciarti’, e siamo rimasti così, con un groppo in gola tutti e due”. Che cosa fa, in questi giorni, Haber?“A volte mi perdo in qualche film, ma appena il film è finito torno alle notizie che mi travolgono. Mi commuovo alle storie dei medici, degli infermieri. È come se qualcuno dicesse loro: andate nel campo minato, ma non sappiamo dove sono le mine. E loro, pur sapendo tutto questo, ci vanno. Se fossi un medico, io, riuscirei a farlo? Spero di sì, ma non ne sono sicuro”. Le accade di ripensare agli amori passati?“Continuamente: penso a incontri, ad avventure, alle donne con cui sono stato… Ho più pensieri erotici di prima! Però sa qual è l’immagine che mi ha più straziato?”. Quale?“Quella del papa solo. Quando l’ho vista, io – che sono di famiglia ebraica, e non particolarmente credente – mi sono messo in ginocchio, da solo, in casa”. Quando è iniziata la quarantena, lei stava portando a teatro uno spettacolo. Era, fra l’altro, una sua prima volta…“Sì: con ‘Morte di un commesso viaggiatore’. Un testo meraviglioso: gli applausi del pubblico, prima di questa Apocalisse, ogni tanto mi tornano in mente”. Quali ricordi le fanno compagnia?“Rivedo tutta la mia infanzia, come un film. Mi torna in mente Tel Aviv, dove sono stato fino a nove anni, i campi attorno a casa mia. Quando pioveva diventavano dei mari dove ci affrontavamo in interminabili battaglie, su zattere costruite da noi”. Anche adesso siamo su una zattera.“Ecco, proprio così. La zattera è la Terra tutta intera. Se ci salviamo da questa tragedia, spero che non si pensi più ad andare su Marte, ma a salvare questa Terra. L’abbiamo ferita, avvelenata, intossicata. E lei si sta vendicando”. Quali colleghi sente più spesso?“Il mio amico Giovanni Veronesi, che vive insieme a Valeria nella sua Maremma adorata, e Rocco Papaleo”. Che libri sta leggendo?“Il colibrì, di Sandro Veronesi: me lo ha regalato suo fratello Giovanni. Ma non riesco a concentrarmi sulla lettura. Ogni sera alle 18 mi collego col bollettino di guerra in tv: e spero sempre nella notizia che ci salvi tutti. Mi sento come se fossimo tutti naufraghi, naufraghi che aspettano di vedere terra”.