SENZA ENZO. QUANDO JANNACCI FECE IL DISCOGREVE

Il 17 ottobre 1982 muore Beppe Viola, talento giornalistico e spirito affine, cui Enzo Jannacci dedica la canzone più limpida diDiscogreve,Per un amico, e (sembra) una pausa di ripensamento che ritarda l’uscita dell’album. Discogreve(Ricordi, estate 1983) è quello con Enzo-culturista in copertina, che più che aerobica fa tanto stereo con steroidi, e ha in Roberto Colombo un co-regista musicale esagerato – che sia già nell’aria lo sloganl’importante è esagerare? Forse non è un caso che alla seconda delle due date al CineTeatroCiak di Milano, dove esegue le nuove canzoni, Jannacci si presenti con una mano ingessata, biascicando incomprensibili scuse: incidente in Vespa o in palestra? Discogreveè extravagante come quelle esibizioni, improntate a un improbabilepopelettrico, che chiude estremizzandola – e con un solenne fiasco – una stagione di applausi, inaugurata daFoto Ricordoed esplosa conCivuoleorecchio. Nel 1979-1980, Jannacci ritrova infatti un successo di massa, tra canzoni ecabaret, pari a quello dei tempi diVengoanch’io,no tu no. Discogrevesembra parlare alle nuove generazioni: ne hanno l’intenzione esplicitaIlmaiale, rabbiosa e depressa,ePensione Italia, quella su un Paese in cui ti dicono che “una stazione è caduta giù dal burrone”;velatamente lo fa anche inObbligatorio, brano elettronico che richiama non solo nel titolo la libertà obbligatoria di Giorgio Gaber. Le altre canzoni sono meno immediate comeL’Americana(dedica o metafora?),coverfolli eoverprodotte (O’surdato innamorato,stranita dal flicorno e concoro alpino), divertissementrock travolgenti (Zan zan le belle rane, già incisa nel 1979 da Massimo Boldi). MentreL’animaleeRagazzapazzasi divaricano trasoundprepotente e intimismo allucinato. Insomma, il meglio di Enzo Jannacci, di tutto, di più, persino troppo. Colombo stesso aiuta e non aiuta: non a caso nel decennio precedente ha inciso tre albumproga suo nome, quasi contraddicendo il suo ruolo dispin doctor, uomo nell’ombra, comprimario di lusso. Lo ammetteva Jannacci: “Io non ho interlocutori”. Con il dubbio che sia tempo perso dire “cose incomprensibili a persone che non le intendono”, come afferma in un’intervista a Mirella Caveggia perAvvenimenti. E allora?Allora… concerto, la risposta arriva con un’altra canzone, si fa musica. Il saltimbanco sale sul palco. Accetta, come canterà più tardi, persino di “parlare con i limoni”, il titolo dell’album del 1987, che alcuni vogliono percorso dalfil rougedell’incomunicabilità. Ma al di là delle letture che impegnano gli esperti in jannaccese,Discogrevenon è ancora rassegnato ai limoni. Fallisce semmai alla grande, per troppa spropositata voglia di dire, di fare, di suonare, di cantare e insieme di portar la croce, perché il disco è davverogreve: oltre chevolgarein quanto fatto come di consueto di poesia terra terra, èpesantecome un bilanciere caricato per il sollevatore di pesi. Ricordo i due concerti visti al Ciak due sere di fila: sparati e bellissimi, intensi e sciamannati, muscolari e solidi, geniali e stolidi, pronti a riassumersi (un altro paradosso) nellavervelivedi un musicista che mai come inDiscogrevepuò enunciare le verità più sconvolgenti o rifugiarsi in un apparentenonsense. Soltanto ora capisco perché amai più di tutte le canzoniZan zan lebelle rane: era un’esplosione di musica travolgente, uno sberleffo alla definitiva fine della giovinezza del medico-cantautore-karateca. ForseDiscogreve, composto all’indomani della morte di Beppe Viola, proprio di questa fine parla. Amargine. Ho trovato, in una vecchia copia deL’Unitàdel marzo 1987, una testimonianza che Milva mi regalò a corona di un articolo su uno spettacolo di Jannacci, il già citatoParlareconilimoni. “Enzo segue dei ritmi tutti suoi” mi disse Milva. “In studio di registrazione sta per ore senza fare nulla. Giocherella. Poi parte in quarta. Quando ho incisoLa Rossacon lui, mi ha lasciato un braccio pieno di lividi: mi stringeva troppo forte quando cantavamo in duetto”. Sono stupito nel rileggere il resto del mio pezzo, sotto un titolo (Ma per fortuna che c’è Jannacci) non fatto da me, ma dall’allora celebre caporedattore Gian Piero Dell’Acqua. Prima dello spettacolo, scrivo cauto, un po’ scettico, guardo l’Enzo-nazionale con circospezione, quasi diffidenza, come a significare: ma abbiamo ancora bisogno delle sue mattane? SuL’Unitàdi qualche giorno dopo, trovo la mia recensione dello show: sono entusiasta. Rivedo ancora l’Enzo (il nostro Enzo) che, come un portiere pazzo, finisce rinviando limoni in platea. Ecco.