PD: ESPIANTATO L’ULIVO, DIECI ANNI DOPO RIMANE UN CAMPO DESERTO

PD: ESPIANTATO L’ULIVO, DIECI ANNI DOPO RIMANE UN CAMPO DESERTO

Nella storia dei partiti, nonché dei movimenti e dei rivolgimenti politici e sociali, ottobre è un mese che ricorre di frequente: dalla “rivoluzione”, appunto “d’ottobre”, di un secolo fa che anche nel nome ne assorbe il mese di riferimento, alla ben più modesta vicenda del Pd, nata novant’anni dopo nello stesso mese, la quale pure in parte con quel retaggio pesante dovrebbe misurarsi.In queste ore si festeggia il decennale del partito che nacque, almeno nell’intento dei suoi fondatori, per immettere nel mondo nuovo del terzo millennio la lezione e le conquiste di alcune tradizioni e culture politiche sorte e sviluppatesi in una realtà storica ormai del tutto superata.Una era quella del primo grande partito di massa, il Psi fondato nel 1892, da cui, per scissione, un quarto di secolo dopo era nato, appunto con la rivoluzione d’ottobre, il Pci.Un’altra era quella propria del secondo grande partito, quello cattolico nato con la Dc di Romolo Murri e il Partito popolare di Luigi Sturzo.Queste due culture politiche, proprio grazie alla loro forma nuova del partito di massa, avevano soppiantato quelle precedenti, la destra storica e la sinistra storica, entrambe di matrice liberale ma espressione del notabilato nei territori.A dire il vero, prima ancora dei partiti di massa, un’altra tradizione politica aveva avuto un certo peso nella storia d’Italia: quella repubblicana, sinistra estrema in parlamento fino al 1892. Peraltro liberali, repubblicani e socialisti erano state anche i protagonisti del Risorgimento, rispettivamente con Cavour, Mazzini e Garibaldi.Per cogliere il senso storico e la parabola dei dieci anni del Pd, è sufficiente soffermarsi “solo” sull’ultimo secolo di storia proprio perché si può ben dire, semplificando ma non troppo, che questo “giovin partito” fu in gran parte la risultante della volontà di scioglimento e di fusione di due forze politiche le quali, passando per le tempeste successive alla caduta del muro di Berlino del 1989 e di “Mani pulite” tre anni dopo e per i conseguenti restyling e riposizionamenti, erano comunque ancora gli eredi di quei due grandi partiti di massa, il comunista e il cattolico nati in età prefascista e riemersi, dopo l’oppressione e la censura del regime, nella realtà post-bellica.Entrambi (il primo come Pci-Pds-Ds, il secondo come Dc-Ppi-Margherita) protagonisti nell’Italia repubblicana e suo cuore pulsante, rispettivamente, dall’opposizione e dal governo, dopo quarant’anni, nel ’95 in vista delle politiche dell’anno dopo, scoprono la vocazione ad unirsi e la necessità di farlo per battere il centro destra nel nuovo scenario reso bipolare dal referendum sulla legge elettorale del 1993. L’alleanza sperimentata nel ’96, e riproposta nel 2001 e 2006, convince i protagonisti di quella stagione politica, Romano Prodi su tutti, che quei due grandi partiti hanno fatto il loro tempo e che devono cedere il passo ad un soggetto del tutto nuovo che attinga al loro patrimonio di conquiste civili e sociali ma che, fondendo gli ideali socialisti con il solidarismo cattolico, si apra ai nuovi fermenti del progressismo del terzo millennio: ambientalismo, civismo, volontariato, liberalismo sociale.Dieci anni dopo, che ne è, o meglio che ne è ancora e che ne è rimasto di quel progetto e di quella sfida?Se è vero che noi, adesso, nel cercare la risposta, possiamo – ed anzi dobbiamo – consultare l’esperienza storica di questo decennio così come essa ha agito e ancora agisce nella carne viva della società, non si può negare che una risposta, brutale, tranchant – forse affrettata – fu data da Massimo D’Alema quando il Pd muoveva ancora i primi passi. L’ex segretario del Pds protagonista nel ’95, proprio in questo ruolo, della fondazione dell’Ulivo, bollò subito nel 2007 la fusione tra Ds e Margherita come “amalgama mal riuscito”. Aveva ragione o torto D’Alema?Oggi possiamo dire che se in qualcosa sbagliò, lo si deve ad eccesso di ottimismo.Di quell’amalgama, certamente mal riuscito, non rimane nulla ed è difficile oggi parlare di amalgama, essendo palesemente di fronte a pezzi per nulla amalgamati, ed anzi separati, di un corpo unico mai diventato veramente tale.Potremmo cominciare dalla fine, con le parole di Walter Veltroni, primo segretario del Pd e di Matteo Renzi, ultimo, attualmente in carica.Per Veltroni il Pd nacque con dieci anni di ritardo in quanto “tutta la sinistra governava il paese con l’Ulivo” grazie al primo governo Prodi (’96-98) “il migliore della storia della repubblica” abbattuto “dal massimalismo e dalle divisioni”.Verità storica inoppugnabile quella pronunciata da Veltroni in quanto a far cadere il governo-Prodi fu il voto contrario di Bertinotti e della parte maggioritaria di Rifondazione comunista su un documento di politica economica sul quale cocciutamente Prodi aveva voluto porre la fiducia mentre D’Alema, conscio dei pericoli, lo aveva implorato di non farlo.Veltroni, dieci anni dopo, esalta il “riformismo” come valore intrinseco del Pd ravvisandone il troppo poco che esso ha avuto nella causa dei mali che lo hanno accompagnato e il di più che dovrà avere nella speranza per il futuro.Renzi, segretario, tuttora, in carica per quasi quattro dei dieci anni trascorsi e con la prospettiva di altri tre, in ogni caso già il più anziano di tutti i segretari (Veltroni in sella appena un anno e quattro mesi, Bersani tre anni e cinque mesi) ha risposto che “la sinistra sarebbe stata irrilevante senza il Pd” e che “i prossimi dieci anni saranno fantastici”.Se sul futuro Renzi avesse ragione, la sinistra avrebbe di che preoccuparsi perché se i prossimi dieci anni saranno fantastici per lui, della sinistra, intesa anche come corpus di politiche sociali ed economiche, già sterminata nella prima fase della sua gestione, non rimarrebbe alcuna traccia.Ma il punto decisivo di ogni analisi che si possa fare di questo decennio è proprio nella prima parte delle affermazioni del segretario: senza del Pd la sinistra sarebbe stata irrilevante?Noi crediamo che sia vero esattamente il contrario in quanto la sinistra – ovvero il Pds prima e i Ds dopo nell’Italia del maggioritario, con le formazioni satellite di sinistra-sinistra nonché dei movimenti e dell’ambientalismo – era sempre stata il soggetto enormemente più importante e rappresentativo, fino a rappresentarne elettoralmente anche l’80%, dello schieramento ulivista, mentre nel Pd questa forza si è dispersa in parte per la scissione dovuta ai tanti pezzi che non l’hanno seguita dentro il Pd, in parte per le logiche del nuovo soggetto politico in cui molto più a loro agio si sono ritrovati gli eredi del partito cattolico e di centro.E ciò ancor prima di Renzi con il quale, semmai, questo processo di “centrizzazione” della sinistra, spinto fino ad assumere marcati connotati di destra sia nelle politiche di governo che nelle alleanze, ha subito un punto di non ritorno.Veltroni ha detto che il Pd, anziché dieci oggi potrebbe avere vent’anni in quanto nacque con un decennio di ritardo.Nel ’97 governava l’Ulivo di Prodi in piena salute e se un anno dopo Bertinotti non l’avesse fatto cadere – e se, una volta caduto, d’Alema non avesse accettato di guidare un governo con Cossiga e parte dei centristi alleati con la destra, in sostituzione di Rifondazione comunista – la storia d’Italia sarebbe stata completamente diversa.Ma poiché la nascita del Pd, nel 2007, ha comportato il drastico ridimensionamento della sinistra e l’annacquamento dei suoi ideali di fondo, rimpiangere il tempo sottratto al Pd equivale a rimpiangere un tempo in cui quel partito avrebbe potuto più fortemente e precocemente comprimere o azzerare identità e programmi di sinistra.Lo stesso Veltroni, primo segretario, in carica durante il Prodi-bis (2006-2008) ne determinò direttamente e repentinamente la caduta con la sua dichiarata vocazione maggioritaria e l’accordo con il Pdl su una legge elettorale che di fatto eliminava i piccoli partiti, quelli su cui si fondava a fatica e con difficoltà quel governo. L’inchiesta giudiziaria che investì la famiglia Mastella fu solo il casus belli, ma il “bellum”, ovvero la guerra, lo stesso Mastella, ministro in carica e “capo” di uno di quei partitini personali vitali in Senato alla sopravvivenza del governo-Prodi, l’aveva già dichiarata, insieme alla schiera dei tanti piccoli partner, quando Veltroni concluse quell’accordo sciagurato peraltro con un Pdl a pezzi, dilaniato dallo scontro interno totale che in quei giorni faceva dire a Fini “siamo alle comiche finali”.Veltroni fece il “miracolo” di far cadere il governo di cui sente la mancanza e di resuscitare un avversario agonizzante che infatti come d’incanto ritrovò la sua forza e la sua pace interna al punto da stravincere pochi mesi dopo le elezioni.Peraltro proprio Veltroni in quegli stessi mesi fu autore dell’accordo con Berlusconi sullo sbarramento al 4% nella legge elettorale del Parlamento europeo: qual’era la ratio? Quale governabilità avrebbe dovuto garantire un mero strumento di esclusione e di dubbia ispirazione democratica come uno sbarramento che infatti, trattandosi di un’istituzione meramente rappresentativa, non figura in alcuna legge dei paesi dell’Ue per il parlamento di Strasburgo?Senza del Pd o fuori dal Pd nessuno avrebbe potuto compiere un duplice colpo di mano come questo, artefice della caduta del secondo governo-Prodi.Ecco a cosa è servito, tra le tante altre cose, il Pd.E’ vero peraltro quel che dice Veltroni sul ritardo con cui fu concretizzato quel progetto.Qualcuno infatti invocava da tempo un partito dei “Democratici” di stampo americano che unisse la sinistra, il centro laico di ispirazione progressista e il cattolicesimo democratico.Aveva cominciato già nel ’93, ancor prima che si sperimentasse la legge maggioritaria, Alleanza democratica di Ferdinando Adornato e Willer Bordon.Dieci anni dopo, nel 2003, aveva proseguito Michele Salvati, deputato Ds, e quello stesso anno Prodi, per quanto presidente della Commissione europea (un successo anche dell’Italia e del governo in carica all’atto della nomina, nel ’99) chiese ed ottenne che quel che rimaneva dell’Ulivo si presentasse con una lista unica alle europee del 2004.Egli in effetti rilanciò lo stesso appello anche per le regionali del 2005 (raccolto in 9 regioni su 14) e per le politiche del 2006 ma il no secco della Margherita impedì la nascita “prematura” di quello che sarebbe stato il Pd.E’ in questa stagione politica che in ogni caso viene piantato il seme del nuovo partito.Il 16 ottobre 2005 (data quasi “gemella” di quella, 14 ottobre, in cui, due anni dopo, sarebbe nato il Pd) le primarie di coalizione incoronano Prodi, vincitore con il 74%, futuro candidato a presidente del consiglio: quattro milioni e trecentomila i votanti.Un successo di partecipazione che plasticamente rafforza la voglia del popolo ulivista di una propria identità collettiva e che, infatti, nonostante il no della Margherita per cui si ripiega sull’Unione a nove sigle, tiene vivo il bisogno di unificazione.L’11 febbraio 2006 al circolo della stampa di Milano una storica assemblea rende maturi i tempi del progetto. Nascono decine di associazioni aventi questo unico scopo e dopo il seminario di Orvieto ad aprile 2007 cui si sottopone quasi l’intero dicastero Prodi, è pronto anche il calendario: i congressi di Ds e Margherita ne sanciscono lo scioglimento. A maggio 2007 è pronto il “comitato 14 ottobre” dei 45 e nella data prevista si celebrano le primarie fondative del nuovo partito che, con oltre tre milioni e mezzo di votanti, incoronano Veltroni primo segretario: schiacciante la sua affermazione su Rosy Bindi ed Enrico Letta. Primo presidente dell’assemblea nazionale ne è Romano Prodi.Fatto fuori il governo-Prodi con le armi della proposta Vassallo (il costituzionalista incaricato da Veltroni di elaborare una legge elettorale cucita su misura di un Pd liberatosi dai piccoli alleati e del Pdl allora moribondo, soprattutto dopo la fallita spallata al governo-Prodi della quale Berlusconi era certo grazie ai patti inconfessabili con il parlamentare acquisito dall’Idv, Sergio De Gregorio), Veltroni si candida a succedergli ma nelle elezioni di aprile 2008 il Pd si ferma al 33% e la coalizione con Di Pietro e i radicali al 37%, nove punti in meno dell’armata berlusconiana.La sinistra, esclusa dall’alleanza e punita dal “Porcellum” imposto da Berlusconi nel 2005 con il suo sbarramento al 4%, non entra neanche in parlamento.Singolare che Veltroni, segretario del Pd durante il Governo-Prodi e con Berlusconi in quei mesi di ottobre-novembre 2007 debolissimo, per azzerare il “porcellum” non trovi di meglio che barattare, alla pari, con chi l’ha voluto, una nuova legge elettorale che andasse innanzitutto bene a lui e impedisse un’alleanza larga a sinistra come quella che sosteneva il governo-Prodi.Nell’Italia che ad aprile 2008 celebra la ritrovata potenza dell’allora cavaliere, Veltroni, sconfitto, rimane al timone del Pd ma quando a febbraio del 2009, perde in Sardegna dove non viene rieletto il presidente uscente Renato Soru si dimette.Gli subentra per vie interne il vice Dario Franceschini, fino a nuovo congresso.Il 25-10-2009 (un altro ottobre!) è la volta di Bersani che, in un’altra festa di popolo con tre milioni e 67 mila votanti, batte nettamente lo stesso Franceschini e il cardiologo neo senatore Ignazio Marino.Il “nuovo corso” tenta di recuperare lo strappo a sinistra ma la via veltroniana alla vocazione maggioritaria ha fiaccato il fronte e le spinte ad allargare l’alleanza operano più verso il centro e la destra. L’Udc si dice disponibile ad un’alleanza con Pd e Idv, che infatti prende corpo nelle regionali del 2010 in Liguria, Basilicata, Marche e Piemonte e, nelle amministrative dell’anno dopo in 21 città capoluogo su 30 e in 7 province su 11.Questo è anche il tempo delle tante primarie di coalizione sul territorio che, in barba alla forza dei numeri sulla carta e alla vocazione maggioritaria del pd, incoronano i candidati della sinistra-sinistra contro quelli del Pd: Giuliano Pisapia a Milano, Massimo Zedda a Cagliari, Marco Doria a Genova ne sono solo gli esempi più eloquenti.Lo schiacciante successo del sì nel referendum dello stesso anno sull’acqua pubblica e sui quesiti collegati (con Bersani e il suo Pd in posizione attendista e defilata, mentre a raccogliere le firme erano Idv, le sigle di sinistra e soprattutto i tanti movimenti sul territorio) rivela una fortissima domanda di sinistra che sale dal basso e, conseguentemente, apre un fronte di espansione e di crescita su questo versante.Bersani se ne farà interprete con l’alleanza con Sel “Italia bene comune” nelle politiche del 2013, ma dopo avere sbagliato clamorosamente ogni scelta in quell’autunno caldo di novembre 2011 in cui, crollato il governo-Berlusconi sotto il peso degli scandali, della propria incapacità ad arginare la crisi finanziaria e delle contraddizioni interne (quelle emerse già fortemente nel 2007 ma che Veltroni, buono e generoso, aveva tramutato nei punti di forza del proprio avversario) il segretario del Pd compie un autentico suicidio politico, per se, per la sinistra e per l’Italia: offrire un sostegno incondizionato al governo-Monti, insieme al Pdl che era il responsabile del disastro cui Monti avrebbe dovuto ovviare, anziché pretendere un voto immediato e, ancora meglio, anziché pretendere un voto a brevissimo termine (tre mesi al massimo) dopo avere cancellato il “porcellum” e, preferibilmente, dopo averlo fatto nell’unico modo neutro e immediatamente praticabile in mancanza di un accordo ampio su una nuova legge elettorale: abrogarlo, facendo tornare in vita la normativa precedente, il “Mattarellum”, così com’era.La crisi economica e le politiche del governo-Monti le quali in nome di un’austerity ottusa e senza sbocchi, massacrano i ceti sociali meno abbienti, indeboliscono il Pd di Bersani perché le pulsioni contestatrici all’esterno contro le aspre e crescenti diseguaglianze sociali trovano espressione dentro il partito nella lotta al vecchio ceto dirigente, ai privilegi e alle rendite di posizione della “casta” e alla sua incapacità di tutelare le classi lavoratrici, nella necessità di una “rottamazione”.Diventa questa l’arma di un giovane sindaco dai modi spicci che rompono vecchi schemi, nonché rituali, liturgie e gerarchie di partito.Matteo Renzi, cresciuto nella Dc, nel Ppi e nella Margherita (sua la campagna, come segretario fiorentino di questo partito, con cartelloni sui bus “Margherita, non è la solita pizza”), a 29 anni, nel 2004, presidente della Provincia (candidato in quanto “Margherita” ed eletto ampiamente con i voti della sinistra fiorentina) e a 34 sindaco (vincitore a sorpresa nelle primarie di coalizione, grazie alle multi candidature dei Ds ed al soccorso dell’amico Verdini), impugnando la bandiera della rottamazione diventa un fenomeno mediatico e l’icona del rinnovamento di cui c’è bisogno anche se, paradossalmente, il suo programma è tutt’altro che aperto alle istanze dei ceti deboli ed anzi si identifica pienamente – per sua stessa, esplicita, ammissione – con l’agenda-Monti.Tenta la scalata al Pd attraverso le primarie di coalizione del 25-11-2012 in cui oltre tre milioni di votanti però designano Bersani candidato a palazzo Chigi: al primo turno Bersani 44,9%, Renzi 35.5%, Vendola 15,6%, al ballottaggio 60,9% per il candidato del Pd contro il 39,1 del giovane sindaco.“Italia Bene Comune”, l’alleanza Pd-Sel che un anno prima avrebbe conquistato un’amplissima maggioranza sia alla Camera che al Senato, dando vita al governo-Bersani ed aprendo presumibilmente una fase nuova, a febbraio 2013 non ha alcuna possibilità di esprimere da sola un esecutivo.Bersani non trova quindi la via di palazzo Chigi e, colpito dai 101 franchi tiratori che impallinano Prodi candidato al Quirinale dopo averne osannato il nome nell’assemblea di partito (ancora oggi i loro nomi sono sconosciuti, ma solo Renzi, già forte di un folto drappello di peones vi aveva interesse) lascia anche la guida del partito.La strada è così spianata per l’ambizioso rivale interno che nelle primarie di dicembre 2013 batte facilmente Gianni Cuperlo, candidato degli ex Ds e Pippo Civati, giovane brillante passato per la Leopolda quando in buona fede era convinto che anche Renzi volesse, come lui, il rinnovamento del partito e non, semplicemente, una strada, qualsiasi e con qualunque mezzo, per conquistarlo.Con il nuovo segretario – ambizioso, sbrigativo, accentratore e autoritario come nessun altro prima – il Pd, già segnato dalla dispersione di gran parte del suo patrimonio genetico di socialismo e comunismo, orientato verso il centro dalla vocazione maggioritaria di Veltroni, ingabbiato nelle logiche di un ceto dirigente, soprattutto di provenienza postdemocristiana, aduso alla ricerca del governo per il governo e al mantenimento del potere prima e più della visione di società e del progetto (perciò, Renzi subito a palazzo Chigi al posto di Letta), aumenta lo strappo a sinistra e l’adesione a politiche, atti di governo, scelte per nulla di sinistra ed anzi di centro e/o di destra contro i valori essenziali della sinistra: con Renzi il Pd viaggia verso un altrove mai visto prima.Le leggi sul lavoro, sulla scuola, sul fisco, quella elettorale e la riforma costituzionale imposte con voti a maggioranza bulgara in direzione Pd, dove il confronto non è tollerato e i dissenzienti sono derisi e puniti, e riprodotti in parlamento a colpi di voti di fiducia separano drasticamente il partito non solo dal popolo ulivista del primo e secondo governo Prodi ma anche da quello dei movimenti del 2011 ispirato da ricette autenticamente di sinistra.Lo dimostra la batosta subita da Renzi con il referendum del 4 dicembre scorso che avrebbe potuto chiudere il triennio di deriva al centro e a destra, su posizioni di totale matrice liberista, del Pd a trazione renziana ed aprire una fase nuova, ma sempre nei limiti ormai invalicabili di un partito comunque di centro sia pure a vocazione solidaristica, e non autenticamente socialista alla Corbyn, Sanders o Melenchòn, ma così non è stato e, dopo la personalizzazione di ogni quota di potere accentrata su di se da Renzi, non poteva essere.Cosa rimane dunque oggi del Pd dieci anni dopo la nascita?Probabilmente ben poco da salvare, almeno secondo l’intento dei suoi stessi ispiratori di preservare e rendere attuale nel terzo millennio un secolo di battaglie sociali per il riscatto dei più deboli, per la tutela del lavoro e per la protezione dei diritti della persona in un ambiente sano e vivibile per tutti.E ciò in parte per la drastica cesura operata a sinistra dall’operazione di fusione in se, incompatibile per sua stessa natura con gran parte della cultura politica del primo grande partito di massa, con l’apporto non secondario di certe visioni parziali calate sul presente come la segreteria Veltroni impietosamente dimostra.Ma in gran parte per il “tanto di più”, operato su questa deriva da Renzi in termini di gestione poco “democratica” (laddove democrazia non equivale solo al rispetto formale di regole e procedure, ma alla sostanza di un confronto tra chi la pensa in modo diverso e nel quale tutti devono potere esprimere il proprio pensiero, senza che sia scontato in partenza che chi abbia i numeri più forti per ciò solo debba avere ragione e prevalere) e, soprattutto, per le politiche di governo, ormai ininterrottamente da quasi quattro anni, troppo poco o quasi per nulla di sinistra (se non per alcune battaglie sui diritti civili che però, in quanto tali, sono liberali e neutre, di sinistra quanto di destra) e spesso di destra.Il Pd è, ad un livello infinitamente più basso, la nuova Dc senza avere però né la cultura politica né la pluralità culturale di quel partito e soprattutto senza averne lo spirito e la necessità collegiale della gestione. Le cause sono molteplici, non solo interne a questo partito ma anche esterne, come la crisi dei corpi intermedi e della rappresentanza ad ogni livello, ma ciò rende letale e incorreggibile ogni colpo di mano come i tanti che, dalla sua scalata vittoriosa, il ragazzo di Rignano ha inflitto a quello che avrebbe dovuto essere il tempio delle idee e della lezione politica di personalità come Gramsci, Matteotti, Sturzo, Nenni, Pertini, Togliatti, Parri, Dossetti, De Gasperi, Moro, Berlinguer.Di questo “pantheon” al Pd non resta più niente, come una … margherita di cui è stato distrutto ogni petalo, perché quella raccolta dal ragazzo di Rignano non era, non doveva più essere “la solita … pizza”.Di quella margherita o di quell’albero secolare, d’ulivo o altra specie, giunto fino ai nostri giorni con i rami, le foglie e i frutti rappresentati dai valori, dalle idee e dalle conquiste di quelle grandi personalità della storia, rimane solo un campo deserto.Anche la parata per il decennale lo ha confermato: pochissimi i sopravvissuti del “comitato 14 ottobre”, molti invece i renziani ferventi votati alla causa del capo Pd, che non è quella del Pd come era stato invocato, ideato, costruito.