“FINAL PORTRAIT”: L’INCOMPIUTEZZA DELL’ARTE (E UN PO’ PURE DEL FILM, DIREI)

La verità? Geoffrey Rush è prodigioso, per somiglianza e atteggiamenti, nel rifare sullo schermo in chiave bohémienne lo scultore/pittore/incisore Alberto Giacometti (1901-1966) nella Parigi del 1964; Armie Hammer è in parte, forse addirittura più bravo che in “Chiamami col tuo nome”, nell’incarnare il paziente scrittore americano James Lord, naturalmente omosessuale, alle prese con un ritratto che non finisce mai; Stanley Tucci è un attore sensibile e versatile che sa il fatto suo anche quando passa dall’altra parte della cinepresa in veste di regista. Tutto vero: ma debbo confessare che “Final Portrait – L’arte di essere amici” mi è parso interminabile, pur durando solo 90 minuti. L’incompiutezza dell’arte, che poi è il vero tema della storia, come ha notato un’elogiativaAlessandra Mammìsu “L’Espresso”, rischia di diventare un po’ anche l’incompiutezza del film, che esce giovedì 8 febbraio targato Bim.