ANTONIO MANCINI, DAL SODALIZIO CON CARMINATI AI SERVIZI SOCIALI

ANTONIO MANCINI, DAL SODALIZIO CON CARMINATI AI SERVIZI SOCIALI

Eccolo in tv, è Antonio Mancini, il famigerato ‘accattone’ della Banda della Magliana. Lo riconosco, anche se quei capelli che ricordavo brizzolati, sono diventati completamente bianchi. Ha pagato, ha scontato la sua pena ed è tornato ad essere un uomo libero. Non si nasconde più, come faceva quando lo intervistai nel 2008. Ci incontrammo, dopo tante trattative con il suo avvocato, nella stazione ferroviaria di Jesi, non si faceva nemmeno fotografare in volto. Oggi racconta liberamente di tutto, anche di Massimo Carminati, suo compagno di criminalità allora e dietro le sbarre per via dell’inchiesta ‘Mafia Capitale’ oggi.Nino lo ricordava più educato, più posato, nonostante tutto, mentre dalle intercettazioni lo sento molto più violento, dal linguaggio più scurrile. Forse perché Carminati non ha fatto tutti i passi indietro, o avanti se vogliamo, che ha fatto Nino.Ricordo che, mentre mi parlava, guardavo le sue mani, pensavo a quanti danni e quanto sangue avessero fatto in passato. Poi, parlando con lui, mi ero resa conto che cambiare si può, se si vuole.Lui l’ha voluto, l’ha scelto.Da giovanissimo aveva iniziato a rubare, poi a uccidere. Lui e i suoi compagni senza pietà godevano dell’appoggio di mafia, ‘ndrangheta, camorra e Brigate Rosse, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Novanta avevano seminato morte e terrore. Nino era un boss ma nel ’94 aveva deciso che di quello schifo ne aveva abbastanza e aveva scelto di diventare un collaboratore della giustizia.Durante l’intervista aveva la sigaretta sempre accesa e la battuta sempre pronta. A vederlo così, non avrei mai detto che dentro di sé portasse un inferno che aveva costruito proprio con quelle sue stesse mani.«Che te credi che nun ce penso?» mi diceva. «Come potrei non pensarci? Ero sempre io, non posso rinnegare il passato che ho vissuto, che avevo scelto di vivere. Prima rubando una lambretta, poi una macchina, poi uccidendo. Tutto per denaro. Facevo tutto solo per denaro, come gli altri miei compagni, del resto. E non c’entrava la politica. Tra noi c’era chi era comunista, come me, e chi fascista. Ma quando si trattava di soldi, gli ideali passavano in secondo piano. Anche se poi, e questa è la cosa che mi fa più schifo, sono stati proprio i politici a commissionarci i reati peggiori, gli omicidi più efferati. Io ho i tatuaggi, quelli tipici di chi è stato in carcere, ma c’è chi ne ha sotto pelle ben più compromettenti dei miei. Come oggi, anche allora c’era una bassa politica che si serviva della criminalità per raggiungere i propri scopi. Politici, imprenditori, giudici, carabinieri, avvocati, magistrati, servizi segreti: erano tutti amici nostri. I miei compagni dicevano che era meglio farseli amici che nemici. Perché un amico tira l’altro».Commentavo che proprio non ci si poteva fidare di nessuno.«Di nessuno» ribadiva lui. «I veri potenti, poi, so’ i peggio».E mi raccontava di quando decise di collaborare, di fare tutti i nomi che sono agli atti, verbalizzati. «Sai cosa mi rispondevano? “Non è possibile, stai mentendo”. Non hanno interesse a tirar fuori la verità perché fa paura. È per questo che dico di non ammazzare, di non rubare ma, purtroppo, anche di non collaborare. Tanto nessuno ci crede. E nessuno mantiene le promesse che vi hanno fatto».Eppure lui l’ha fatto, si è pentito e ha collaborato.«Pentito è un modo ipocrita e gentile per dire che sei un infame. Io sono un infame e lo so». Aveva deciso di collaborare quando stava per nascere la sua seconda figlia, non voleva che anche lei, come la primogenita, fosse costretta a vivere dietro il vetro di un parlatorio per incontrare suo padre.«Mi avevano promesso una vita nuova, una nuova identità» raccontava deluso. «Invece niente. Tornassi indietro, non diventerei collaboratore di una giustizia che non c’è. Si, per qualche anno ho vissuto sotto protezione: un altro nome, un’altra identità e cose di questo genere. Mi hanno spremuto come un limone e poi… via, nel secchio, come si fa con le cose che non ti servono più. Avevo già perso la dignità di bandito, loro mi hanno tolto anche quella di uomo. E adesso sono tornato a essere Antonio Mancini. Quello che lavora nei servizi sociali, che aiuta i disabili».Quando gli chiesi se avesse paura mi rispose «…di morire? No, cosa vuoi che me ne importi! Vivo giorno per giorno da sempre. Come se per me non fosse mai esistita la speranza di un futuro. Non so neppure come ho fatto ad arrivare fin qua. Forse perché ogni volta che mi sono trovato sull’orlo del burrone ho sempre trovato qualcuno che mi ha preso per i capelli e mi ha salvato. Forse perché in quest’uomo c’è sì un infame ma anche qualcos’altro. E ogni volta che aiuto i dolenti, come li chiamo io, per me è come ridare un po’ di quella vita che ho tolto in passato. Ho sempre rabbia dentro di me ma è una rabbia più innocente, costruttiva, piena di buoni propositi. È una lotta per la vita».Nino non ce la farebbe nemmeno a chiedere perdono per quello che ha fatto. «E con quale faccia? Mi sputerebbero e non potrei dargli torno».Se dei valori sono rimasti per lui sono il rispetto e l’amicizia, quella vera. «Ho trovato tanti amici, anche tra i dolenti. Il loro sorriso è così pulito che mi fa sentire la persona più importante del mondo. Molte volte prenderei un treno e li porterei con me, dove non ci sono le mamme che si vergognano di loro, non ci sono uomini falsi e ipocriti, dove non ci sono né violenza né morte. Ma quel posto su questa terra non esiste. Dovrei portarli in un’isola che, purtroppo, non c’è».