IMMIGRAZIONE: SENZA POLITICA DEI FLUSSI ITALIA SENZA SERVIZI DOMICILIARI
Negli ultimi anni parlare di flussi migratori significa, in buona sostanza, quasi sempre far riferimento alla immigrazione proveniente dal mediterraneo, con tutto ciò che comporta in termini anche comunicativi: Libia, barconi, ONG ecc. Tuttavia, non è solo su quel versante che la politica immigratoria italiana ha subito negli ultimi periodi un forte tentativo di ridimensionamento. Infatti, anche i flussi di ingresso per i migranti che arrivano in Italia per svolgere una attività lavorativa regolare hanno subito, negli ultimi anni, una drastica riduzione, per arrivare ad un pressoché totale azzeramento nel 2018.Solo che, a proposito di questo dato, i primi ad evidenziarne gli aspetti negativi non sono stranieri, ma italiani. Lo fa, in particolare l’ Assindatcolf, l’Associazione nazionale dei datori di lavoro domestico, per bocca del proprio vice presidente, Andrea Zini che, sulla base dei numeri, evidenzia un trend negativo fra le assunzioni, pur trattandosi di un settore in cui il fabbisogno lavorativo, legato al costante incremento del numero di anziani presenti, è in perenne crescita.Questo, secondo Zini, deriverebbe dalla mancanza di una politica immigratoria per flussi che, ormai dal 2012, è stata completamente abbandonata e che, come conseguenza, sta notevolmente incrementando il numero dei lavoratori in nero nel settore. Già questo, di per sé, in un momento in cui il tema dell’evasione fiscale è stato a lungo portato avanto come centrale nel dibattito politico, dovrebbe far intuire la negatività del dato. Va però aggiunto che il settore dell’assistenza domiciliare (dove l’incidenza dei lavoratori stranieri è pari al 70%) e, in generale l’impiego di immigrati regolarmente assunti, ha un valore tutt’altro che trascurabile dal punto di vista economico: nel 2018, i soli stranieri impiegati regolarmente sono stati quasi due milioni e mezzo, per un importo complessivo stimabile in 139 miliardi di euro, ovvero il 9%, con un versamento di imposte e contributi che ammonta a 25 miliardi di euro, con un saldo decisamente attivo rispetto alle spese che lo Stato sostiene per i servizi a loro erogati. Nell’analisi del dato generale, relativo alla produzione di ricchezza, bisogna anche tener conto di un secondo aspetto: nel 2018 i soggetti nati all’estero e che hanno fatto impresa in Italia sono 708.949, superando per la prima volta quota 700 mila e rappresentando quasi il 10% degli imprenditori totali. Questo scenario è del resto del tutto previsto fra gli studiosi di dinamiche d’impresa che, specialmente dall’analisi delle esperienze di paesi con una lunga esperienza di immigrazione come Canada, Usa e Australia, avevano già assistito al fenomeno del trasferimento degli stranieri dalla condizione di dipendente, a quella di imprenditore. Uno studio del Center for American Entrepreneurship ha infatti evidenziato che, tra le 500 imprese più importanti d’America, censite da Forbes, nel 2017, il 43% conta almeno un immigrato (di prima o seconda generazione) tra i propri fondatori; percentuale che cresce al 57%, considerando solo le prime 35 aziende censite. L’incremento fra gli imprenditori stranieri in Italia, cresciuti del 40% nell’ultimo decennio (a fronte di una decrescita netta invece per quelli italiani), non ridimensiona la questione legata allo stop dei flussi programmati.Secondo Luca Di Sciullo, presidente Centro Studi e Ricerche Idos, “Dal 2011 in poi l’Italia ha sostanzialmente bloccato i canali di ingresso legali agli stranieri che intendano venire stabilmente per motivi di lavoro. Anche da questo dato deriva la necessità, per molti migranti ‘economici’, di entrare in Italia attraverso i flussi di migranti ‘forzati’ che arrivano come richiedenti asilo, pur non avendo i requisiti per il riconoscimento. Il duplice aspetto negativo di questo status quo consiste in una penalizzazione del mercato del lavoro, in cui sono lasciati scoperti settori con una elevata domanda di manodopera estera, a tutto vantaggio del lavoro nero. Inoltre, c’è un generale effetto negativo e di complicazione sulla già critica gestione dell’immigrazione, soprattutto per quanto riguarda i flusso dei richiedenti asilo, vanificando peraltro un potenziale beneficio per la società e lo Stato. Se, quindi, si dovesse dar fede esclusivamente ai dati ed alla razionalità, parrebbe evudente la necessità di tornare ad una programmazione dei flussi di ingresso, prevedendo quote dedicate a reali nuovi ingressi di lavoratori non stagionali. IL tutto implicherebbe necessariamente un adeguamento del sistema di rilevazione del fabbisogno, in modo tale da poter prendere in considerazione le esigenze complessive di imprese e famiglie. Purtroppo però, ormai da anni, l’argomento “immigrazione” è uno di quelli che la politica non riesce a gestire con raziocinio. Così se a destra e nella Lega, la questione non è minimamente all’ordine del giorno, seppur, paradossalmente, il maggior numero di impiegati stranieri sia proprio allocato nelle regioni del nord (nell’ordine Lombardia, Lazio, Toscana, Emilia-Romagna e Veneto), il centro sinistra e il Movimento 5 Stelle, evitano l’argomento per una atavica paura di perdita di consensi. Chissà se almeno i dati di PIL serviranno per far rientrare la gestione dei flussi migratori in un ambito di razionalità politica.
