QUELLO CHE IL SUDAMERICA CI PUÒ INSEGNARE SULLA INTERCULTURA
DALLA NOSTRA CORRISPONDENTE A BUENOS AIRES Mentre in Italia l’interculturalità entra a scuola ancora sotto forma di “progetti didattici”, in Sudamerica è stata incorporata nella Costituzione e nelle leggi scolastiche dei singoli paesi. In Bolivia la prima esperienza pilota di scuola indigena bilingue – voluta da un leaderaymara(un popolo nativo) e un maestro – risale al 1931, nella zona della capitale La Paz. E oggi sono 36 gli idiomi nativi riconosciuti dal sistema educativo, grazie a una legislazione decolonizzata e inclusiva. In Argentina, malgrado una forte tradizione di politiche scolastiche normalizzatrici, la diversità culturale entra nel discorso politico alla fine degli anni ’80, grazie all’esperienza di provincie pioniere, come il Chaco, Formosa, Neuquen, dove più forte è la presenza di comunità indigene.Di questo si è parlato al 12° Incontro internazionale sull’educazione infantile di Omep Argentina (Organizzazione mondiale per l’educazione prescolare,www.omep.org.ar), che si è tenuto a Buenos Aires dal 3 al 5 maggio scorso (nella foto).Cosa può imparare la scuola europea da esperienze di paesi nei quali la diversità culturale fa parte dell’ossatura nazionale e non è solo l’effetto di recenti fenomeni migratori? Cosa possono insegnarci queste esperienze – e le loro criticità – a livello di scambio, convivenza, inclusione?Secondo Miriam Romero il primo passo è “ascoltare le voci delle comunità”. Ossia quellakhom, nella zona del Chaco. Miriam fa parte dell’equipe pedagogica di una scuola bilingue (spagnolo ekhom) nata 25 anni fa, che copre l’intero ciclo dalla scuola d’infanzia alla secondaria. “Siamo una realtà privata ma totalmente gratuita” spiega. “Siamo nati nell’epoca in cui la Costituzione aveva incorporato i diritti dei popoli indigeni”. La scuola non solo utilizza in modo paritario la linguakhom, ma ha anche assorbito tra i suoi metodi educativi le pratiche ancestrali della comunità. “Per esempio, la comunicazione circolare, anziché verticale” dice Analia Edit Medina, referentekhomdella scuola.Un’educazione interculturale si fa carico della complessità. “Il bambino porta a scuola la trama di relazioni che vive in famiglia e nella comunità” afferma Loredana Ayala, presentando l’esperienza di Chiloé, un’isola a sud del Cile. “Vogliamo un’educazione che pensi alla felicità dei bambini, che consideri il loro stupore un momento pedagogico. Cerchiamo un dialogo con la cultura dominante, per uscire dal dilemma tra identificazione o rifiuto”.Tra i paesi sudamericani, l’Argentina è quello che ha assistito – a partire dagli anni ’90 – una forte immigrazione regionale dai paesi vicini. La scuola ha avuto in passato atteggiamenti discriminatori: per esempio, i bambini boliviani e peruviani venivano automaticamente collocati in classi inferiori a quelle che corrispondevano per età, nella convinzione che il loro livello di preparazione fosse inadeguato. “Ancora oggi la lingua indigena viene vissuta come un problema e non come una risorsa”, racconta Laura Martinez, antropologa. Come dire che il bilinguismo è auspicabile per l’inglese, ma non per le lingue native: in questo caso la differenza coincide con un deficit.Persino i bambini boliviani nati in Argentina, quindi cittadini a tutti gli effetti grazie allo ius soli, risentono degli stereotipi riservati ai migranti. Vengono descritti come silenziosi, timidi, restii a esprimersi. “Dovremmo chiederci” continua Martinez “se sono silenziosi o se sono stati ‘silenziati’. Anche pratiche apparentemente inclusive possono avere l’effetto opposto. Per esempio, fare raccontare a un bambino in classe l’esperienza migratoria della sua famiglia può essere vissuto come una violenza, se non sono state prima affrontate collettivamente e senza personalizzazioni questioni simboliche legate all’identità e alla differenza culturale”.Gli stessi libri di testo tendono ancora presentare i popoli nativi in maniera stereotipata, in mezzo alla natura e agli animali. Ma il libro di testo in sé è un falso problema. Conta di più come lo stereotipo entra in tensione con la consapevolezza dell’insegnante.È un cammino complesso, anche perché ogni soluzione è provvisoria. Sorgono continuamente istanze che obbligano alla ricerca di nuovi equilibri. E in agguato c’è sempre il relativismo culturale, con il rischio di cedimenti – in nome del rispetto della differenza – sul terreno dei diritti dell’infanzia e dell’uguaglianza di genere.“Bisogna problematizzare l’ovvio, scardinare le frasi fatte” dice Alejandra Castiglioni, docente, sociologa dell’educazione ed esperta in politiche culturali. “Cosa vuol dire, per esempio, ‘siamo tutti diversi in una cornice di uguaglianza?’ Assolutamente niente”. Eppure è la classica che viene ripetuta come un mantra.La prospettiva interculturale deve smettere di essere “una prospettiva, per farsi carne” aggiunge Castiglioni. “Deve essere pronta ad adottare pratiche diverse a seconda dei contesti. Deve essere in grado di interpellare il bambino e ascoltarlo. Senza confondere la sua voce con le proiezioni dell’adulto. Una scuola interculturale è una scuola che non si limita a ospitare il bambino, ma gli dà un alloggio suo, gli fa posto e lo tiene stretto senza soffocarlo”. Gli permette di conoscere, perché è stato riconosciuto. E di dare il meglio di sé.
