BREXIT: VERSO IL BLACK FRIDAY 2019
LE DICHIARAZIONI DI THERESA MAY. Il debole governo inglese nella figura del proprio Premier Theresa May ha alzato mediaticamente la voce in merito alla Brexit. Il tutto è accaduto all’interno di uno scenario che assomiglia però ad un sussulto dentro ad un castello cartonato, forse poco adatto, quindi, a reggere forti scossoni; probabilmente le “grida” fuoriescono anche allo scopo di celare le penetrabili mura dell’edificio. La signora May ha dichiarato con toni perentori il 10 novembre al Telegraph: “non tollereremo alcun tentativo di bloccare la nostra uscita dall’Unione”. Come nelle migliori fiabe con mutazioni annesse esiste una data ed un orario: il grande divorzio avverrà alle ore 23 di venerdì 29 marzo 2019. Resta da capire se la carrozza diventerà una zucca o un jet ricco di opportunità. GOVERNO FRAGILE. Il governo di Theresa May è fragile per vari motivi, alcuni “vicini” e altri più o meno “lontani”. Con riguardo ai motivi “vicini”: a stretto giro di posta ben due ministri dell’esecutivo del Regno Unito hanno dovuto rassegnare le proprie dimissioni. Il primo novembre il Ministro della difesa Michael Fallon si è dimesso dopo lo scandalo legato a presunte molestie sessuali a danno di assistenti parlamentari, come ogni storia british che si rispetti il nostro si è dimesso con una dichiarazione piuttosto inglese nelle sue conclusioni: “negli ultimi giorni sono emerse accuse di molestie sessuali da parte di parlamentari comprese alcune accuse sulla mia condotta in passato. Molte di queste sono false, ma ammetto che in passato mi sono comportato al di sotto degli alti standard richiesti alle Forze Armate che ho l’onore di rappresentare”. Passano sette giorni e Priti Patel, segretaria di Stato per lo Sviluppo internazionale, si dimette, dopo le rivelazioni riguardo ai suoi incontri col premier israeliano Netanyahu e con altri esponenti del governo israeliano dei quali non aveva dato conto; immancabile la dichiarazione di commiato che forse potremmo trasmettere come memo alla politica italiana, la Patel si scusa affermando che il suo comportamento si è rivelato “al di sotto degli elevati standard richiesti a un ministro”. Un motivo un poco più lontano riguarda la vittoria della May stessa alle politiche del 2016, una vittoria risicata dei conservatori, al di sotto delle aspettative, che ha spinto la May ad allearsi con gli unionisti nordirlandesi pur di non abbracciare Corbin, uomo dal programma socialista, con idee molto precise su diritti e lavoro. Insomma la premiership forte adatta a guidare l’incontro-scontro con la UE è mancata sin dall’inizio. Il motivo più distante è il seme originario di tutto lo sconvolgimento che sta vivendo la terra dei Beatles e del buon tè, della Regina e del Big ben: le scelte di David Cameron. DAVID CAMERON. All’inizio del suo mandato David Cameron ha fatto la scommessa sbagliata. Chiunque abbia (seppur giustamente) un’idea nobile della politica dovrà scontare l’utopia con dosi di realtà. David Cameron, allora premier inglese, ha in soldoni la seguente idea: propongo io stesso un referendum consultivo in cui chiedo al popolo cosa ne pensa dell’eventuale uscita del Regno Unito dalla UE. Sono certo che la maggioranza voterà “no”, toglierò potere a Farange (allora leader dell’Ukip, partito di estrema destra con idee ai limiti del fascismo) che ha come unico vero punto programmatico la Brexit, consoliderò il mio potere. Sorpresa: contro le previsioni più accreditate vince di due punti la brexit, il remain resta al 49%. La destra è stata abile nel soffiare sul fuoco della paura dell’immigrazione (forse a qualcuno tutto ciò ricorda anche altre realtà…), si narrano scenari paradisiaci in cui il Regno Unito cessa di buttare soldi nella UE mai veramente digerita… insomma David deve rassegnare le proprie dimissioni dopo aver però innescato un procedimento che fa cadere il primo tassello di un lungo domino foriero di enormi conseguenze. REGNO UNITO E UE. Regno Unito e UE da sempre sembrano partner non di un matrimonio ma di una relazione traballante tra due amanti sospettosi. Margaret Thatcher negli anni ‘80 disse eloquentemente “I want my money back”, “voglio i miei soldi indietro”, riferendosi ai contribuiti inglesi all’Europa. E’ arcinoto come il Regno Unito non sia mai entrato nella zona euro, aderiva però al trattato di Schengen in cui si è prevista una zona di libero scambio di persone e merci senza dazi. L’altro amante in questa storia è la vecchia Europa la quale chiede all’inglese voltafaccia 100 miliardi di euro come fio del divorzio, somma che il Regno Unito non ha alcuna intenzione di pagare. Al momento non si è raggiunto alcun accordo e sul piatto della bilancia ci sono questioni vitali quali dazi, libero scambio di persone e merci, capacità attrattiva o repulsiva del Regno come sede di banche e multinazionali, capacità della City di Londra (la borsa) di mostrarsi ancora catalizzatrice di smisurati interessi…(il Regno Unito come tutti i paesi avanzati ma molto più di altri conta sul terziario, in particolare su Borsa e banche). Nel primo semestre 2017 (dati Sole 24 ore) la sterlina è calata rapidamente, la flessione della sterlina ha incentivato l’export ma il rialzo non ha colmato il deficit commerciale. L’aumento dei prezzi delle importazioni si è riversato sull’inflazione, l’inflazione a sua volta ha rallentato i livello dei salari reali (quanto realmente puoi acquistare con lo stipendio al di là della cifra scritta sul versamento che trovi nel conto corrente), è in frenata anche il mercato immobiliare. 50 grandi banche con sede nel Regno Unito stanno discutendo un piano di ricollocazione con le autorità europee. JPMorgan Chase & Co. e Deutsche Bank Ag ad esempio stanno valutando di fare le valigie. La banca d’Inghilterra prevede che l’uscita dalla UE provocherà la perdita di 75000 posti di lavoro. Un accordo soft potrebbe delineare uno scenario simile a quello costruito con l’Efta, l’accordo di libero scambio tra UE e Norvegia, Islanda e Liechtenstein, un accordo che pur lasciando fuori dalla UE chi non ci vuole essere prevede libero scambio di persone e di merci, norme comuni sulla concorrenza, sugli aiuti di Stato, sulla protezione dei consumatori, sul diritto societario, l’ambiente, sulle politiche sociali, sulla cooperazione monetaria…insomma qualcosa di molto simile ad un matrimonio senza documenti legali che lo attestino. C’è però un ma: il Regno di sua Maestà (peraltro avvezza all’elusione fiscale in paradisi altri, vedi paradise papers…) vorrebbe i vantaggi senza pagare una seria penale, una botte piena di ottimo vino ed una moglie scocciatrice già adeguatamente addomesticata dall’ubriachezza…La Scozia in sede di referendum consuntivo (poi convalidato da voto parlamentare) ha votato per il remain. Il 90% del petrolio che il Regno Unito estrae dai mari del Nord se la Scozia decidesse a sua volta di staccarsi dagli UK rimarrebbe alla Scozia…Il nostro Ministro Calenda ha di recente spiegato come una soft Brexit costerebbe a noi italiani in termini economici “solo” 350 milioni di euro mentre una hard brexit arriverebbe a costare ben 4 miliardi di euro (questo per l’interdipendenza commerciale che si sviluppa in un mondo globalizzato). Due anni or sono, uno stimato economista molto apprezzato da quella parte politica che nel nostro Paese fino a pochi anni fa agitava il vessillo della secessione, ha immaginato, ammettendo di sbilanciarsi, che in futuro la moneta rifugio (quella che compri per stare sicuro perché non si svaluta) sarebbe diventata la sterlina. Il più grande economista del Novecento, John Maynard Keynes, amava ripetere: “nel lungo periodo saremo tutti morti”; dobbiamo quindi occuparci di un futuro vicino. Forse talvolta quando uno stimato economista si sbilancia sul futuro vicino inciampa.
