IL DIBATTITO SULLE FAKE NEWS E GLI ERRORI DI PROSPETTIVA SUL MONDO DIGITALE

IL DIBATTITO SULLE FAKE NEWS E GLI ERRORI DI PROSPETTIVA SUL MONDO DIGITALE

Il dibattito sulle cosiddette fake news è uno straordinario specchio del modo di discutere di digitale, in Italia ma non solo. Un concetto utilizzato inizialmente per descrivere un fenomeno specifico (la produzione di item informativi consapevolmente inventati da inserire nei meccanismi della viralità digitale per ottenere benefici economici e/o politici) è stato strattonato da tutte le parti, fatto proprio dai politici che vogliono attaccare i media tradizionali (ad esempio il presidente americanoDonald Trump, o alcuni  esponenti del Movimento Cinque Stelle in Italia), come di quelli  che vedono il pericolo nelle grandi piattaforme digitali di condivisione come Facebook. Diventano così “fake news” anche le informazioni tendenziose; quelle fattualmente vere, ma socialmente ed eticamente inopportune; i messaggi di propaganda; le ipotesi scientifiche non sufficientemente suffragate o quelle suffragate, ma avvertite come pericolose da parte dell’opinione pubblica, ecc. In questi ultimi giorni il dibattito, con tutte le sue confusioni e ambiguità, ha ripreso fiato in Italia grazie a un convegno organizzato dalla RAI nell’ambito del Prix Italia [ne abbiamo parlato qui:Fake News, la RAI e l’apocalisse digitalee qui:La guerra alle fake news secondo la presidente della Camera, Laura Boldrini] e all’annuncio vaticano chela prossima Giornata mondiale delle comunicazioni sarà dedicata a “Notizie false e giornalismo di pace”. I discorsi ascoltati e, specialmente, la discussione che c’è stata sulle piattaforme di condivisione mi hanno convinto che spesso solo apparentemente parliamo delle stesse cose, ma che in realtà molti argomenti intorno al digitale sono frutto di illusioni ottiche, di punti di vista diciamo “analogici” che non si prestano a descrivere e meno ancora a interpretare ciò che sta avvenendo. Per questo ho cominciato a compilare un elenco di “illusioni” che falsano qualunque discussione in materia, perché guardano a ciò che accade con griglie interpretative superate o insufficienti e di fatto puntano a soluzioni che implicano un “ritorno” a uno stato di cose pre-digitale, dove la rivoluzione digitale è “normalizzata” nel noto. Ne propongo alcune, chiedendo emendamenti e aggiunte, e discuto più sotto quella che più direttamente coinvolge la mia ultraventennale esperienza di giornalista digitale e consulente di strategie editoriali. Questa ultima è l’illusione che mi preoccupa di più, maggiormente deformante e, insieme, meno avvertita. Una griglia interpretativa difficile da smontare. Cerco di proporre qualche elemento di riflessione in proposito, senza grandi illusioni di riuscire a portar fuori dal frame chi il frame neppure lo vede. Internet non è un nuovo media, è semplicemente la struttura della nostra vita (e in parte anche la sua metafora, ma questo è un altro discorso). I media, quel che ne resta, vi sono  largamente inclusi, ma non solo i soli. Molte applicazioni digitali in rete svolgono, ovviamente, anche funzioni mediali, tant’è che hanno sconvolto l’industria tradizionale dei media in genere e quella dell’editoria giornalistica in particolare, ma sono molto, molto di più. Sono delle “piattaforme” che abilitano relazioni umane (informative, sì, ma anche commerciali, affettive, culturali…), ogni appello a un’assunzione di “responsabilità mediale”,come ha fatto la presidente della CameraBoldriniproponendo la formazione di vere e proprie redazioni e come suggeriscono con insistenza molte voci giornalistiche e dell’editoria giornalistica, ha conseguenze sul grado di libertà di ciascuno di noi comeproduttoridi informazioni, come soggetti abilitati a queste nuove relazioni. Qualunque intervento in questa direzione, normativo o negoziale, mette a rischio i nuovi innumerevoli gradi di libertà che le tecnologie digitali hanno consentito, un difficile esercizio di equilibrio. Quand’anche Facebook, per esempio, accettasse fino in fondo questa logica, creando una mega-redazione, un mega-direttore responsabile cui rispondano direttore e redazioni locali, saremmo più tranquilli? Un “media”, sia pur benevolo e regolato, con oltre due miliardi di utenti ci piacerebbe? Corollario della “lente mediale” con la quale si guardano queste questioni è che se tutto è “media”, ciò di cui i media si occupano non può che essere “contenuto”, dunque “internet” è una questione di “contenuti”. Occorrerà pertanto valutare ed eventualmente regolare la creazione e la distribuzione dei contenuti, contrastando per esempio i contenuti cattivi, “fake”. Gran parte delle soluzioni che si pensa di dare ai problemi, anche non normative (ad esempio le ripetute iniziative “educative”) si risolvono il più delle volte in questo: distinguere i contenuti e le fonti di essi. In realtà non è così, non sono “i contenuti” il cuore delle relazioni digitali, delle applicazioni che le  abilitano e dei modelli di affari che le sfruttano. In particolare non sono i contenuti in quanto tali, in quanto diversi da altri “nodi” della rete, per esempio e sopra a tutti gli altrile persone, ma anche le organizzazioni sociali, le istituzioni, le aziende, ecc. Nel mondo analogico una persona è una persona, i suoi scritti o le sue fotografie sono altre cose. Nel mondo digitale tanto la persona, quanto i suoi scritti o le sue foto – come qualunque altro “nodo” della rete, sono deidatie generano deidati, i dati sono il denominatore comune di questo mondo. E ne sono il motore, la ricchezza, ne rappresentano le infinite possibilità. Google, ad esempio, non è un “media”, anche se svolge funzioni mediali e ha per la parte sua contribuito ad emarginare molti media preesistenti.  Google, anzi Alfabet che dal 2015 è la holding del gruppo nato dal motore di ricerca, si occupa anche di: ricerca sulla “espansione della longevità e qualità della vita”; domotica (strumenti digitali per l’abitazione); smart cities e innovazione urbana; capitali di investimento; ricerche e tecnologie sanitarie; intelligenza artificiale; energia; automobili senza pilota, ecc. Finché non si capirà questa differenza sostanziale tra mondo analogico e mondo digitale, non sarà possibile discutere di politiche digitali. Anzi, non sarà possibile discutere di politiche tout court, visto che il mondo, tutto il mondo nel quale viviamo è digitale (sì, anche i giornali stampati su carta sono prodotti digitalmente!). Il concentrarsi ossessivamente sui contenuti buoni o cattivi ha la conseguenza deleteria di nascondere i problemi reali e realmente nuovi che la situazione ci propone. La regolamentazione, se ci deve essere, non deve riguardare i contenuti – non più di quanto le diverse culture giuridiche già non facciano – mai dati. I dati sono ciò che hanno in comune, ad esempio, tutte le attività di Google-Alfabet elencate qui sopra. Google-Alfabet, come tutte le altre aziende digitali di successo, non è un’azienda di media più di quanto non sia un’azienda automobilistica o un’azienda farmaceutica: èun’azienda di dati. Attenzione: quando si parla di dati e della loro regolamentazione l’unico quadro concettuale che viene di solito presupposto è quello della riservatezza dei dati personali. Il problema della privacy esiste, ma i dati non sono solo questo: se la ricchezza delle aziende digitali (progressivamente tutte o quasi le aziende) è basata sui dati, se i dati sono il loro core business occorre che questo business sia concorrenziale, che nuove aziende possano entrare nella mischia, battersi con quelle esistenti e magari superarle. Ciò che vediamo oggi, invece, è che i grandi protagonisti internazionali dell’economia (e della vita) digitale hanno assunto dimensioni talmente imponenti, con capacità di calcolo così ampie e sofisticate, da rendere molto difficile, se non impossibile una sfida concorrenziale. Non solo, ma la potenza e il potere di questi soggetti sono tali da poter essere sfidati con difficoltà dagli stessi Stati, che piuttosto tenderanno ad appoggiarsi ad essi per tutte quelle funzioni computazionali, informative e di controllo, in una logica – questa sì ben compresa – di negoziato da potere a potere. La miopia di quanti pensano di dover e poter ridurre Google o Facebook a “nuovi media”, magari sottoponendoli ai criteri che informavano la vecchia legge italiana sulla stampa, rischia dunque di creare due problemi: danneggiare tutte le funzioni relazionali delle applicazioni digitali che non sono “media”, ignorando al contempo il grande mostro dei dati che ingombra il campo. Concentrarsi sulle relazioni e sui dati che queste producono in rete è un modo giusto, “digitale”, di affrontare i problemi che abbiamo di fronte.  Prendendo questo approccio, forse troveremmo degli altri campi nei quali condurre difficili, ma possibili battaglie nei confronti dei grandi e apparentemente onnipotenti oligopolisti dell’universo digitale. Per esempio, se ridefinissimo il campo della concorrenza, il mercato rilevante nel mondo digitale (che non sono i contenuti mediali, come non lo le automobili o la domotica di cui pure, come abbiamo visto, Google si occupa), come il campo e il mercato dei dati, si potrebbero definire anche nuovi principi della legislazione anti-trust, si potrebbero immaginare norme che impediscano, limitino o sottopongano a condizioni lo scambio di dati tra servizi tra diverse aziende o tra linee di affari differenti di una stessa azienda, ciò che è stato raccolto a uno scopo deve essere utilizzato a quello scopo. In questo nuovo campo di gioco così ridefinito si potrebbero immaginare “breakup funzionali” (l’azienda rimane una, ma le sue unità di business sono rese impermeabili rispetto ai dati da ciascuna generata) invece dei tradizionali breakup strutturali che nei casi storici di antitrust hanno portato allo spacchettamento aziendale. Un approccio di questo genere, per quanto politicamente difficile e costoso, avrebbe tra le sue conseguenze anche un ridimensionamento del potere dei nodi più rilevanti della rete e, quindi, di rendere relativamente meno gravi il problemi “contenutistici” che pur ci sono. E’ solo un esempio di come si potrebbe procedere se giornalisti, analisti e politici cercassero di osservare il mondo digitale in un’ottica diversa. Ma servirebbe uno sforzo di astrazione assai difficile, mentre è assai più facile perché noto lo schema della trattativa negoziale da potere a potere tra politica e grandi attori digitali e/o della imposizione per via legislativa. Con tutti i rischi di cui sopra.