LA RABBIA VERA DI TOR PIGNATTARA CONTRO IL GIORNALISMO SENZA VERGOGNA

LA RABBIA VERA DI TOR PIGNATTARA CONTRO IL GIORNALISMO SENZA VERGOGNA

Ci risiamo. Tor Pignattara ancora una volta protagonista dell’ennesimo e rivoltante articolo giornalistico. Ovviamente a senso unico. Ovviamente e volutamente “forte”. Ovviamente e coscientemente confezionato per procurare allarme, stando ben lontani dalla complessità e tagliando con l’accetta ogni passaggio attraverso una sequenza di stereotipi da fare spavento. Parliamo dell’articolo pubblicato su La repubblica di oggi a firma diFederica Angeliche, a quanto pare, ha avuto l’oneroso compito di raccontare le cosiddette periferie. Facendo un po’ di ricerche sui precedenti articoli, si scopre che quello suCorvialeconteneva una quantità di imprecisioni tali da far sospettare che Angeli a Corviale non ci fosse mai andata. E lo stesso dicasi per quello sul nostro quartiere, che già in premessa è impreziosito da una sequela di luoghi comuni e “tag” stereotipate da fare spavento:banlieue, islamizzazione, l’odore del kebab etc. etc. E poi via a raccogliere solo testimonianzepro domo sua, ovvero che a Tor Pignattara, in fondo, si stava meglio quando si stava peggio. Posizione chiaramente emergente per il semplice fatto di dare voce solo ed esclusivamente a chi, in fondo, rimpiange gli anni dellaBanda della Marranella, dei negozi tutti chiusi di via della Marranella, delle sparatorie in strada, dei “bucatini” che ti sbattevano addosso mentre camminavi. Un paradiso perduto, insomma. Sparito, seconda la tesi tutt’altro che implicita dell’articolo, per colpa degli immigrati. Un’orda infestante che, stando a quanto dice una residente non smentita dalla giornalista, arriva a contare 50.000 unità (quando la realtà dei fatti testa che sono invece 5.000, come da dati facilmente reperibili nei vari osservatori sulle migrazioni). Angeli, oltre che a spacciare numeri falsi, lascia che siano le voci della “ggente” a sostanziare di realismo la favola che vuole raccontare. Una sorta di verismo teleguidato, in cui i dati e i fatti senza fondamento alcuno vengono lasciati lì, in bella mostra, diventando così veri, pregnanti, fattuali. In questo doppio movimento sta l’assoluta malafede dell’articolo. E il discorso lo possiamo estendere alle fonti usate dalla giornalista. Parliamo del “sedicente”Comitato dei Cittadini di Tor Pignattara. Associazione di scopo creato ad arte dalla destra romana che ha già al suo attivo almeno 3 candidati nelle liste diFratelli d’Italiae che sostiene esplicitamente il movimentoNoi con Salvini. Gruppo che è collegato al neonatoComitato per la Sicurezza, ulteriore reincarnazione delCoordinamento di ribellione dei rioni e quartieri di Roma. Gruppo che che riesce a fondere ilPopolo della Famigliacon le rievocazioni pretoriane, passando per il Piano Kalergi e le strizzatine d’occhio aCasa Pound. Insomma il distillato perfetto del “Prima gli italiani”, “Non sono razzista, ma…” etc. Appare ovvio che Angeli se dà voce a questi soggetti lo fa solo per dare “verità” alla sua visione preordinata di quartiere allo sbando dominato da Imam ideologizzati. Un covo di terroristi in erba in cui gli italiani sono schiacciati contro lo strapotere immigrato e il degrado è il prodotto naturale di questo scontro di civiltà. Ma, come dicevamo, laddove non ha fonti, Angeli le inventa. Come quando conta gli esercizi commerciali italiani e stranieri, tirando cifre come fosse la tombola ed ignorando che nell’ultimo anno, nel quartiere, sono stati aperti più esercizi commerciali a gestione “italiana” che straniera. Ma non basta, in questo delirio immaginifico, nel primo paragrafo propina un attacco alla Pisacane, scuola che ospita alunne e alunni provenienti da 17 paesi diversi, con un numero sempre maggiore di iscrizioni, all’interno della quale sono ospitati progetti regionali, del Miur ed europei. Nell’articolo la scuola Pisacane, in barba a tutto ciò, viene definita “cattedrale nel deserto”. Guarda caso esattamente le parole che spesso usano le sue “fonti” per descriverla. Il gioco appare chiaro e cristallino e crediamo non ci sia altro da aggiungere. Questo non è giornalismo ma pessima letteratura; non racconta la complessità di un quartiere che ha sicuramente tantissimi problemi, ma che da anni si sforza di ricostruirsi dalle macerie in cui la politica di questa città l’ha sempre confinato. Indugia in luoghi comuni ormai insopportabili, analizzando i fatti da un solo punto di vista, che cicca completamente il nocciolo del problema, ovvero il fatto che nell’assenza di una regia pubblica (investimenti, programmi, strategie) questo territorio deve autogestirsi e lo deve fare coordinando cittadini provenienti da 20 diverse regioni del mondo, tutti (allo stesso modo), vittime di un sistema che fa vincere il più furbo, negando diritti e sorvolando sui doveri. Un sistema e una politica completamente incapaci di gestire l’ordinaria amministrazione, figuriamoci la complessa partita del dialogo interculturale. A Federica Angeli chiediamo di scusarsi pubblicamente con il quartiere per quello che ha scritto. A Repubblica chiediamo di pubblicare questo documento, come parziale risarcimento al danno procurato ad oltre 40.000 cittadine e cittadini romani. I residenti di Tor Pignattara hanno ragione. Il loro quartiere viene raccontato solo come sentina di degrado. Quasi che gli stranieri, tantissimi, avessero distrutto un quartiere modello. Il che è, ovviamente, falso, e solo gente in malafede – leggi “razzisti” – potrebbe considerare il kebab e le donne velate peggiori delle bande criminali e soprattutto dell’esercito di tossici che c’erano prima. Dopodiché, cari comitati, capiteci pure a noi. Cercate di pensare a noi e alle nostre necessità. La cronaca di Roma è ormai affare nazionale. Si copre un territorio immenso, che non si conosce se non in minima parte. Una parte peraltro mediamente centrale, visto che questo è ormai un mestiere cui si accede esclusivamente su base censitaria (corsi + scuola + esame + paga solitamente ridicola = – un sacco di soldi. Che arrivano da patrimoni familiari, e che difficilmente passano da un certo tipo di quartieri). E però il degradismo tira. È proprio una categoria: i pezzi “degrado” entrano nelle scalette e nei timoni, e nei tempi di magra (ossia privi di eventi davvero interessanti) ne costituiscono la maggior parte. Punto primo: quando dobbiamo raccontare “il degrado delle periferie”, il più delle volte non abbiamo idea di cosa parliamo, e ogni commissione di pezzo si apre con una visita su Google Maps per capire dove sia questo posto che tanto ci indigna. E soprattutto se – applicando le distanze in linea d’aria – possiamo usare l’amatissima formula “a due passi da…” (inserire location di prestigio a caso. Ad esempio, anni fa lessi un pezzo su Bastogi che si apriva con «A pochi minuti da San Pietro…». Pochissimi, se hai un elicottero). Ma tanto in quei quartieri pochi guardano i talk – a meno che non li riguardi – e nessuno legge quotidiani. Quindi le possibilità di essere sbugiardati sono al minimo. Affonda tranquillo, e non temere le iperboli. Punto secondo: ogni pezzo deve trasudare indignazione. “È una vergogna”, “è uno scandalo”, “un’indecenza”, “E lo Stato/il Comune/chi ve pare, che fa?”. E soprattutto deve essere qualcosa di inaudito, di mai visto prima, di clamoroso. Fiaccolate, presidi, risse o magari tentati linciaggi sono assai graditi. Punto terzo, collegato al secondo: trovate un nemico e convogliate su di lui tutta la colpa. Esempio: gli immigrati (richiedenti asilo in un centro della prefettura o persone con regolare permesso che vivono come persone normali: fa lo stesso). Non azzardatevi a citare statistiche sui reati in calo (a meno che non sia per sottolineare la lontananza di quei papaveri dell’Istat dalla vita reale delle persone, tipo “Dicono che i reati sono in calo, ma forse qui i questionari del Ministero non arrivano”). Mai e poi mai farete riferimento a tare storiche, tipo l’eroina negli anni ’80-’90, l’assenza di collegamenti col centro, la latitanza dei servizi sociali. Fate coincidere l’inizio dei guai del quartiere con l’arrivo della causa – naturalmente esogena – che avete scelto o che le “fonti” vi hanno consegnato. Et voilà, il gioco è fatto. Noi, cari abitanti di Torpigna, avremo il nostro pezzo (scritto o video), e avremo aggiunto un altro tassello all’epopea del “degradismo”. In grande sintonia con lo spirito del tempo, magistralmente incarnato da piattaforme tipo “Roma fa schifo” (che nella gente che dorme per strada vede un danno estetico e alla legge, e non all’umana decenza), questo è un genere giornalistico che affonda le sue radici nel santorismo di piazza (la finestra in collegamento con “i cittadini incazzati) ma lo eleva a nuove vette e ne inonda l’etere, inflazionandolo. Quindi, se vent’anni fa Santoro poteva permettersi di fare collegamenti con gente che chiedeva asili e parchi giochi, di fronte al pubblico di oggi (molto più smaliziato e molto meno politicamente alfabetizzato) bisogna dare molto, molto di più. Il che da un lato crea una narrazione stereotipata (dunque asettica e senza colpevoli, tranne che – ovvio – eventuali negri: il degrado diventa un tratto caratterizzante dell’ambiente urbano, e viene quindi dato per scontato); dall’altro, infantilizza le proteste, che – pur di “bucare” la scarsa attenzione dei media in assenza di eventi sanguinosi – adotteranno metodi particolari, spesso violenti ma sempre e comunque non istituzionali. Dunque, difficili da rendere traducibili in atti reali. Il grande non detto è che noi, appena finiamo, prendiamo i nostri motorini, infiliamo i nostri EarPods da 40 euro, e – con Spotify e Google Maps a volume alto – ce ne andiamo. I cittadini, i comitati e tutto il resto se ne rimangono nella merda, ovviamente, perché quel tipo di mobilitazione è costitutivamente impossibile da soddisfare. L’esasperazione porta al rifiuto della mediazione; in assenza di mediazione (e di fronte a richieste impossibili, o a provvedimenti istantanei), le soluzioni spariscono. Noi abbiamo contribuito alla crescita del degradismo e magari abbiamo lasciato esterrefatto qualche veneto (chissà perché i veneti guardano tantissimo i talk show), e “gli esasperati” si danno di gomito dicendosi “Hai visto come je l’avemo fatta vede?”. La vostra indignazione durerà qualche minuto – accresciuta da qualche responsabile balbettante in studio, incalzato da pomposi editorialisti scandalizzati (che durante il servizio saranno pure loro corsi su Google Maps per vedere se almeno ci passano di fronte dal Raccordo, a sti posti demmerda, mentre vanno a fare le gite) per l’inaudito scandalo. Citeranno Londra e Parigi, facendo però raffronti tra il Laurentino 38 e le parti di Londra e Parigi che conoscono loro, ossia il centro del centro e – i più “giusti” – qualche zona hip. I soldi che noi avremo guadagnato dureranno poco, perché solitamente sono pochi (ma tanto ci sono i patrimoni di cui sopra). I problemi che abbiamo raccontato – male – resteranno lì. Perché è un teatro, è una denuncia che non serve a chi è nei guai ma a noi. Non serve a trovare soluzioni ma a riempire una pagina o qualche minuto di trasmissione. Ora direte: di chi è la colpa? La colpa non c’è: noi stiamo lavorando, e cerchiamo di dare al pubblico ciò che vuole, nel circolo perverso tra aspettativa (periferia = degrado) e sua soddisfazione, anche mistificata; perché i discorsi sulla deontologia sono tutti molto belli, ma mal si conciliano con un mercato asfittico, che contemporaneamente dilata a dismisura gli spazi (quanti talk c’erano vent’anni fa? Quanti oggi?) e riduce di molto i compensi e le possibilità di lavorare sul serio. Capiredattori e conduttori pensano allo share, ma non è pura vanità: senza share si chiude, se non si vende si licenzia. Il pubblico vuole questo? Diamoglielo. Magari ci ignoreranno un po’ meno, e gli dimostreremo che pensiamo molto ai problemi delle periferie. Ecco dunque che vi regaloIL VADEMECUM DEL DEGRADISMO 1) trova la zona: vanno bene sia le strade vetrina sfregiate dalla vista dei poveri che dormono in strada, sia come in questo caso zone di periferia dove né l’autore né soprattutto il lettore/spettatore è mai stato;2) individua il comitato di “cittadini esasperati”;3) fatti rilasciare dichiarazioni roboanti: “non ne possiamo più” è veramente il minimo, ma sono ben gradite minacce di insurrezione e/o giustizia privata, accuse sanguinose “ai politici”, insulti alle autorità cittadine, varie ed eventuali;4) ignora – IGNORA, mi raccomando – le potenziali quanto a volte palesi commistioni fra detto comitato e l’estrema destra più oltranzista; questo punto è molto importante, se non rispettato rischi di perdere il pezzo (casi come Tor Sapienza o Tiburtino III non sarebbero mai scoppiati, per dire);5) le sfumature non funzionano, specie in televisione: trova un cattivo, trova il buono e fermati. Qualsiasi elemento in contrasto con una narrazione dicotomica sarà considerato inutile complicazione, orpello, riduzionismo;6) se si tratta di un collegamento in diretta, trova un responsabile del comitato (v. punti 2 e 4), uno che possa reggere qualche minuto, e affiancagli però il più esagitato di tutti. Cosicché, quando il “moderato” comincerà a rispondere alla domanda “Cosa volete?”, lui possa cominciare a urlare “SE NE DEVONO ANNÀ TUTTI SINNÒ LI BRUCIAMO”, oppure “CE VENISSERO I POLITICI A VIVE QUA, NOI SEMO STANCHI” (non userà queste parole, ma le parolacce – naturalmente stigmatizzate tra un sorrisino compiaciuto e l’altro dal conduttore – danno autenticità, quindi meglio) Il pezzo passa, e questa diventa una vita molto migliore. Forse Alice nel Paese della MarranellaAltramente – Scuola per tuttiAsinitas OnlusAssociazione Pisacane 0-11Comitato di Quartiere Tor PignattaraComitato di Quartiere CertosaCemea del MezzogiornoComitato Genitori scuole Deledda-PavoniDieci MondiEcomuseo Casilino ad Duas LaurosKarawanFestL’Albero dei GelsiL’alveare co-workingRGB Light ExperienceScuola Popolare di Tor Pignattara