NON ERANO TABLET MA “PACCHI”, IL REFERENDUM IN LOMBARDIA COSTATO 50 MILIONI
Secondo gli oppositori politici e molti costituzionalisti indipendenti, quello del 22 ottobre scorso, sulla maggiore autonomia della regione Lombardia, era un referendum inutile perché giuridicamente privo di effetti. Aveva però lanciato una grande novità. Via vecchie matite e schede di carta, gli elettori per la prima volta andavano al seggio per votare sultouchscreendi 24 milatablet: Maroni li chiamò così, ma era facile, anche grazie alla documentazione del bando di gara, obiettare che non ditabletsi trattava ma di “voting machine”, macchine ben più grandi e pesanti (2 chili e 25 centimetri di lunghezza per lato) costati, per l’esattezza 21.730.654,64 euro. Ma il problema non era tanto nell’uso della parola sbagliata (tablet), né nel peso e nelle dimensioni (potrebbe essere solo un fastidio), ma anche nelle possibilità concrete della loro utilizzazione da parte delle scuole cui il presidente della Lombardia promise pomposamente quella che a suo avviso <>. Sorvoliamo pure sul termine sbagliato e ingannevole del dispositivo elettronico, sul peso e sull’ingombro, ma ciò che ora emerge con certezza, e che già allora era del tutto evidente, è che le scuole con questo “gioiello della tecnologia” non potranno farci niente. E infatti dirigenti, docenti, personale tecnico, dei sessanta istituti cui sono state consegnate le prime 1500 macchine, si stanno scervellando nella ricerca di un modo, almeno uno, di rendere utili a qualcosa questi ”pacchi” elettronici spacciati pertablet. Qualcuno azzarda: <>, ma anche questa speranza è destinata a spegnersi perché bisognerebbe immaginare l’inserimento di unmousenella porta Usb di quello che dovrebbe comunque diventare untablet. Chetabletnon erano, né potevano essere, era chiaro fin dal bando di gara, risalente al 2015, finalizzato non già all’acquisto ditablet, ma alla <>. Com’era ovvio, in quanto sarebbe stato impensabile votare con uniPado untablet Android. Il bando chiedeva <>. Non è inutile rileggere l’allegato tecnico di quel bando e rilevare che ogni “Voting Machine” (appunto, nontablet) <>. Poi, oltre al <>, dovrà essere dotata di <>. Tra le richieste c’è anche la riconfigurazione al termine del voto: chi si è aggiudicato il bando dovrà <>, <> e <>. Vero che l’estensore auspicava la possibilità che venisse utilizzata la “parte del dispositivo” residua dopo le operazioni di voto “riconducibile ad untablet”, ma era un mero desiderio, tanto più che la scelta è caduta, fra le tre società partecipanti, su quella che, proprio perché specializzata ine-voting, offriva di fatto un prodotto finalizzato pressoché esclusivamente alle operazioni di voto. Insomma, era già tutto scritto, ed anche tutto chiaro, almeno ad amministratori, dirigenti e burocrati della Regione. Amara sorpresa invece per docenti, studenti e dirigenti scolastici i quali avevano confidato nella rassicurazione perentoria del presidente Maroni ed oggi trascorrono ore e ore ad armeggiare con un oggetto pressoché inutilizzabile, fin daltouch screenche non reagisce affatto ai tocchi delle dita di piccoli e grandi che non si arrendono a quella che appare loro una beffa dopo l’annuncio mediatico dell’autunno scorso. Il responsabile tecnico del Liceo Volta di Milano del resto ha spiegato benissimo a Il Fatto Quotidiano l’impossibilità insanabile di riciclare questi oggetti elefantiaci: <>. Inoltre difficile adattare a Ubuntu applicazioni compatibili con quelle simili ad untablet, né è possibile fare riferimento a Windows. Insomma <>. Ciò si spiega anche con la precisa scelta, desumibile dal bando, di puntare sull’installazione di unsoftwareopen sourceper non pagare eventuali licenze commerciali. Insomma era già tutto chiaro e questi “pacchi” elettronici da due chili potevano servire, al massimo, a regalare a tre milioni di elettori l’emozione di un istante: votare in modalitàtouchscreensu un corposo “tablet”, piuttosto che con la vecchia matita copiativa su una scheda di carta che comporta l’insostenibile fatica di doverla piegare e riporre nell’urna. Certo, si pensava che, oltre all’emozione, grazie al nuovo sistema ci si potesse guadagnare in velocità nell’elaborazione dei risultati. E invece niente. Anzi, da questo punto di vista, l’esperimento è stato un disastro. Solo a mezzogiorno di lunedì 23 ottobre sono stati resi noti i risultati che, normalmente, con il vecchio sistema, almeno nel caso di referendum, è possibile solitamente conoscere già tre ore dopo la chiusura dei seggi. Insomma, una scelta infelice, sbagliata, costosa. Ai quasi 23 milioni di euro del prezzo della fornitura di queste macchine praticamente “usa e getta”, bisogna aggiungere il costo del lavoro prestato da sette mila assistenti digitali che, con quello per le operazioni di voto, fa salire la spesa complessiva a cinquanta milioni di euro: pari a quattro volte quella sostenuta da Zaia in Veneto per l’analogo referendum. Altra questione è quella relativa alla scelta dell’azienda fornitrice del servizio, la SmartMatic finita nella lista nera degli Usa per il fiasco elettorale di Chicago quando, secondo la stampa statunitense <> e il suo fondatore, Antonio Mugica, fu accusato di <>. In proposito è stato anche ricordato che <>. Peraltro Alek Boyd, giornalista e attivista per i diritti politici, ha raccontato come <> e che <>. Ma questa è geopolitica o, al massimo, inutile sfida alle corsie globali della guerra tra imprese, mentre Maroni ha i piedi ben piantati nella sua Lombardia. Alla quale quindi, anche da ormai quasi “ex presidente”, dovrebbe spiegare il perché di quei cinquanta milioni spesi e il perché di quella promessa dei “tabletalle scuole” che non potrà mantenere.