DECRESCITA FELICE.
“Premetto subito che non sono affatto un sostenitore del M5S, però confesso che non sono d’accordo con il suo articolo pieno di luoghi comuni, signor Turani. Ovviamente lei evita di approfondire troppo ed in modo esauriente la teoria della decrescita, in particolare dimenticando che vi sono due scuole di pensiero dominanti a riguardo. Quella di Pallante (a cui si ispira il M5S) e quella di Latouche. La prima non intende rimettere in discussione a 360° né il nostro sistema sociale ed economico, né tanto meno il nostro sistema politico. Pallante ha una visione riformista e tende a sviluppare un modello fondato su un calo sensibile degli sprechi, sulla promozione di un’economia dominata dalla filiera corta, nonché da un sistema politico che ricalca grosso modo le logiche dello stato attuale con adeguati ritocchi destinati a ridurre il peso terribile della burocrazia nella gestione della cosa pubblica.Latouche invece è più drastico in quanto ritiene che l’insieme di questo modello sociale ed economico è sbagliato alla fonte e propende quindi maggiormente verso un tipo di società autogestita su base territoriale, con un’economia fondata su elementi di condivisione e di sobrietà, nonché su un tipo di Stato maggiormente disarticolato e decentrato rispetto ad un potere accentratore come ha avuto finora.Quindi, affermare che la decrescita felice è quello di ridurre le nostre necessità e nel vivere di quello che è essenziale, non soltanto è semplicistico, ma inesatto in quanto sia Pallante, che Latouche rivendicano invece il fatto che si debba vivere in armonia con l’ecosistema ed in un mercato non più oligopolistico come è quello odierno, ma piuttosto con reali e concreti margini di concorrenza tra imprese che andrebbero a premiare la qualità e la capacità di rendere il profitto un arricchimento sociale per l’insieme della collettività e non per pochi privilegiati speculatori come purtroppo è stato finora.Signor Turani, che lo si voglia o meno, le risorse non sono infinite e non si può pensare nemmeno lontanamente che circa tre miliardi tra cinesi, indiani e latinoamericani, potranno avere in un prossimo futuro tutti un’automobile, condizionatori e altri elementi tecnologici che comporterebbero consumi energetici apocalittici e ripercussioni ambientali negative di difficile valutazione, ma comunque sicure!Perciò, non si sta affatto parlando di tornare agli anni cinquanta, ma di usare in modo condiviso certe cose (ad esempio, in Svizzera da dove provengo, spesso nei condomini, c’è una sola lavatrice ad uso comune), di adoperare con maggiore buon senso altre (mezzi pubblici invece dell’auto quando è possibile, ridurre la temperatura in casa – non c’è bisogno di dormire in un “forno”, anche perché se ci si abitua fin da piccoli al freddo, si può vivere anche con temperature più basse, come ci insegnano da sempre i popoli nordici -, non esagerare col condizionatore – si è vissuto per secoli senza – . con l’uso di cellulari, pc ed altro, ecc…ecc…) e di vivere con maggiore sobrietà ovvero di non mettere più al centro della propria vita il consumo di beni e servizi e quindi dell’esistenza stessa.Cosa ci sarebbe di male in questo?! Nulla! Anzi, si risparmierebbero molte risorse, specie per quanto riguarda la spesa energetica, ma anche nella salvaguardia dell’ambiente (che in Occidente consideriamo un patrimonio da cui attingere all’infinito!) e nell’avere infine una vita in cui poter sviluppare altri aspetti che ci permetterebbero di essere più sereni e tranquilli con noi stessi e con gli altri.Poi lavorare meno, lavorare tutti è una cosa possibile sia perché la tecnologia lo permetterebbe, sia perché basterebbe operare una ridistribuzione più equa dei profitti reinvestendoli in primis nelle aziende e mantenendo e realizzando infrastrutture nei luoghi dove operano a vantaggio di tutta la collettività, diventando un motore compiuto di sviluppo sociale e umano, cosa che oggi non accade, perché il neoliberismo promuove di fatto soltanto il profitto ad oltranza (e troppo spesso anche a qualsiasi costo!) per pochi eletti disinteressandosi quasi completamente di coloro che lo realizzano di fatto e delle conseguenze negative che questo tipo di azione ripetuta nel tempo comporta sul benessere stesso della collettività e dell’ecosistema.D’altro canto, ciò che conta non è quante ore si lavorano, ma la produttività del lavoro effettivamente svolto. Puoi lavorare anche quaranta ore a settimana, ma essere meno produttivo che lavorandone venti e questo è uno degli aspetti negativi maggiormente evidenti nel nostro paese. E su questo aspetto che si misura realmente la competitività di un’azienda, perché è proprio da esso che dipende la qualità che le permette di misurarsi sui mercati internazionali.
