IL PRANZO DEI PARTIGIANI

L’ultima volta è stato una decina di anni fa. C’erano ancora abbastanza partigiani per festeggiare il 25 Aprile. Una trattoria in mezzo alla campagna. A ridosso delle montagne e delle valli della guerra partigiana. Sapevo ogni anno che mamma mi avrebbe portato lì. Mi piaceva stare in mezzo ai suoi amici e compagni di lotta. Uomini e ragazzi che in quell’inverno del ‘43 risalirono le valli con armi, incoscienza e l’irrinunciabile ideale di libertà. Che molti di loro non avevano mai conosciuto. Il pranzo dei partigiani del 25 Aprile durava come quello di un matrimonio. All’antipasto le bottiglie di rosso “qualunque” erano già andate. Guardavo quei volti scavati, le mani callose dei contadini che avevano imbracciato il mitra, osservavo i loro gesti mentre ricordavano quello o quell’altro compagno caduto in qualche battaglia. All’ultimo di quei pranzi chiesi a Pietro se aveva voglia di fumarsi un Toscano con me. Ci siamo avviati lungo un sentiero in mezzo ad un campo di grano. Abbiamo camminato fin dove la stradina polverosa saliva su un dosso. Da lì si vedeva la pianura arrivare ai piedi delle montagne. Era una giornata tiepida e ventosa. Ho acceso il mio mezzo Toscano e Pietro il suo. Avevo in mente mille domande, anche banali. Come si spara con un mitra, che scarpe usava per quelle marce di ore, se mangiava scatolette di carne. Quelle cose lì, molto stupide. Invece, Pietro è rimasto tutto il tempo seduto su una trave di legno, la schiena diritta, il Toscano in mano, in silenzio e gli occhi fissi su quella distesa verde di grano. Poi si è alzato, con la sua giacca “buona” ben stirata su un braccio, la cravatta slacciata sulla camicia bianca con il colletto inamidato e mi ha detto: “N’duma, che sicuramente c’è quella torta con la panna”. Partigiani miei carissimi, se un giorno decideste di tornare in questo mondo fatemelo sapere. Che abbiamo ancora molto lavoro da fare qui tutti insieme.