LA FAVOLA E’ FINITA

LA FAVOLA E’ FINITA

Dopo due anni di melina, alla fine i nodi sono arrivati al pettine. Il 25 maggio 2010 il governo ha varato una finanziaria correttiva da 25 miliardi qualificandola come un pacchetto di norme necessarie e strutturali, in grado di tagliare la spesa pubblica improduttiva e di rilanciare la crescita del Paese. Affermazioni che corrispondono al contrario della verità. Con la manovra correttiva cade nella maniera più clamorosa la maschera ridanciana, piacevole e levigata del governo lasciando spazio al vero volto di un esecutivo politicamente nel marasma, ma più che mai deciso a far pesare i sacrifici sulle fasce e le zone deboli del paese.Analizzando i contenuti del provvedimento è facile realizzare la totale mancanza di qualsiasi ambizione di abbattere gli ostacoli che bloccano sviluppo e rilancio occupazionale. Un aspetto colto persino da Confindustria, che ha recentemente denunciato come la manovra “non contenga riforme strutturali e non rilanci lo sviluppo”. UNA MANOVRA ANTIMERIDIONALE – L’elemento che più allarma in questa manovra è la totale cancellazione della questione meridionale dall’agenda nazionale.Le misure e i tagli contenuti nel provvedimento tendono infatti a ridurre il tema dello sviluppo delle aree depresse a un problema marginale da risolvere con provvedimenti locali piuttosto che con politiche economiche nazionali. Il decreto non affronta in alcun modo i nodi che sono alla base degli scarsi livelli di crescita nel paese. L’esecutivo si limita ad operare tagli e in particolare sferra un nuovo, durissimo colpo al tessuto sociale e produttivo del Mezzogiorno. Proprio quei territori sottoutilizzati e ad alta potenzialità di crescita che dovrebbero rappresentare il perno della politica di rilancio nazionale. IL BLUFF SULL’IRAP – Esemplare in questo senso l’operazione compiuta sull’Irap. Per il Sud questa misura rappresenta una bandierina demagogica e inattuabile sia sotto il profilo delle procedure di attuazione che nel merito. Da un punto di vista procedurale, il passaggio delle competenze richiederà mesi prima della necessarie e tutt’altro che scontate autorizzazioni da parte dell’Unione europea. Ma anche dopo un eventuale via libera da Bruxelles, il provvedimento risulterebbe del tutto inattuabile nel Mezzogiorno.Caricare sulle regioni deboli del paese tutti gli oneri relativi all’abbassamento delle imposte sulle attività produttive, significa semplicemente non voler realizzare alcuna fiscalità di vantaggio. Quella che il governo tenta di spacciare come fiscalità di sviluppo, insomma, non è altro che un clamoroso scaricabarile sulle regioni meridionali e sulle loro già esili finanze. Un abbassamento dell’Irap determinerebbe infatti un insostenibile incremento di costi in territori già costretti a tenere aliquote più alte di circa un punto sulla media nazionale a causa dei forti disavanzi sanitari. LE MANI SUL FAS REGIONALE – Il decreto non prevede infatti alcun trasferimento aggiuntivo alle autonomie locali che decidessero di abbassare o addirittura di azzerare la propria aliquota Irap. Al contrario, minaccia pesantissimi tagli alle risorse delle Regioni sottoutilizzate del Mezzogiorno.La manovra impone infatti lo “spostamento” del Dipartimento delle politiche di sviluppo dal ministero dello Sviluppo alla dirette competenze della Presidenza del consiglio. Un dettaglio non da poco, che mette a rischio definitivamente i 27 miliardi del Fas regionale tenuti bloccati da due anni dall’asse Bossi-Tremonti.Se l’esecutivo deciderà di muoversi in questa direzione consumerebbe la beffa definitiva ai danni dei meridionali e delle regioni del Sud, che oltre ad essere caricate del costo della fiscalità di sviluppo, oltre ad essere prosciugate della dotazione nazionale del Fas, assisterebbero impotenti anche allo scippo delle risorse regionali indispensabili per realizzare una qualsiasi programmazione. TORNARE AL CREDITO D’IMPOSTA – Allo spot irresponsabile e inattuabile della regionalizzazione della fiscalità di vantaggio, va contrapposto con forza e convinzione l’unico strumento immediatamente disponibile, operativo ed efficace: il credito d’imposta nazionale ed automatico per le imprese nel Mezzogiorno.Va subito reintrodotta la piena automaticità nella fruizione del credito d’imposta per nuovi investimenti nel Mezzogiorno e cancellata la norma inserita da Tremonti che ne vincola la fruizione ad un complesso sistema burocratico compromettendone di fatto l’operatività.Esiste già un ampio volume di domande (per circa 4 miliardi di euro) pervenute all’Agenzia delle Entrate che, a seguito del blocco deciso dall’attuale governo, hanno visto slittare i tempi di fruizione ad oltre il 2013.Secondo una recente stima Svimez l’attivazione dei crediti d’imposta per un valore complessivo di 2 miliardi di euro − che potrebbe essere coperto anche con risorse dei fondi strutturali − determinerebbe un incremento del 4 per cento degli investimenti in macchine ed attrezzature al Sud. Un’impennata capace di compensare il crollo previsto negli investimenti in assenza di interventi specifici. GIU’ LE MANI DALLE ZFU – L’altra trovata per il Sud nella manovra appena varata dall’esecutivo è quella delle cosiddette zone deburocratizzate. Le Zone a burocrazia zero sostituirebbero, sopprimendole, l’unico strumento di fiscalità di sviluppo nazionale sopravvissuto alle forbici di Giulio Tremonti, le Zone franche urbane. Le Zone a burocrazia zero, infatti, potranno coincidere con le Zfu già individuate dal Cipe. Ma in questo caso un dirottamento delle risorse annullerà di fatto l’operatività delle no tax area istituite dal centrosinistra.In questo caso al danno si aggiungerebbe la beffa. Dal momento che le Zone a burocrazia zero potranno essere istituite solo nel Mezzogiorno, tale soppressione riguarderebbe esclusivamente le Zfu colocate nelle regioni del Sud, lasciando invece intonse quelle di Lazio, Toscana e Liguria. Uno strumento ideato specificamente per le zone deboli del Mezzogiorno si troverebbe così ad essere operativo solo nel centro-nord LA SCURE SUGLI STATALI COLPISCE SOPRATTUTTO IL SUD – La mannaia del governo colpisce maggiormente le fasce sociali più deboli del Mezzogiorno anche su versanti apparentemente universalistici come il congelamento degli adeguamenti ai dipendenti statali.Giova ricordare che il reddito da pubblico impiego incide infatti in misura assai maggiore sul bilancio delle famiglie meridionali rispetto a quelle del resto d’Italia. Stime recenti indicano che le percentuali dei dipendenti pubblici sul totale degli occupati nelle regioni deboli del Sud sono assai più alte della media nazionale, che si attesta al 16,5 per cento. In Calabria, ad esempio, la quota svetta al 33 per cento, in Sicilia al 30 e in Campania al 25, così come in Basilicata e in Sardegna.Se a questo dato si aggiunge che al Sud le famiglie sono tendenzialmente più numerose e monoreddito si comprende il rischio che una misura depressiva come il congelamento degli adeguamenti previsti agli statali possa avere riflessi drammatici sul potere d’acquisto e dunque sull’economia e sul tessuto sociale delle regioni che già hanno pagato il prezzo più alto sull’altare della crisi. MUTISMO DEL GOVERNO SU LAVORO E POVERTA’ – Secondo dati Caritas, infatti, il rischio indigenza ha interessato nel 2008 una famiglia su cinque a livello nazionale e una su tre nel Mezzogiorno. A chiedere aiuto sono in particolare le categorie lavorative più a rischio come gli atipici e i parasubordinati, ma non solo. Soprattutto al Sud risultano infatti in allarmante crescita le richieste da parte di cassintegrati, di lavoratori dipendenti e persino da parte di impiegati pubblici.La possibilità di finire in una situazione di povertà relativa o assoluta nel Mezzogiorno è connessa anzitutto alla perdita del posto di lavoro. Per rendersi conto della drammatica condizione del mondo del lavoro nel meridione è sufficiente dare un’occhiata alle tabelle dell’Istat e di Bankitalia. Nella fascia di età che va dai 15 ai 24 anni il tasso di occupazione nel Mezzogiorno è pari appena al 15,3 per cento, contro una media nazionale del 45 per cento. In Campania, Sicilia e Calabria lavora in maniera regolare meno di una persona su due. A Caserta è occupata meno di una donna su quattro in età attiva. E sono dati relativi al 2008, antecedenti quindi lo tsunami della recessione. Con l’aggravarsi della crisi, da un lato si è assistito alla diminuzione ulteriore degli occupati, dall’altro si è accelerato notevolmente il fenomeno dello scoraggiamento.La manovra non affronta nessuno di questi nodi fondamentali. In particolare non tiene conto in alcun modo del dramma del lavoro sommerso, che secondo recenti stime Svimez, coinvolge non meno di tre milioni di lavoratori. La vera priorità nello sviluppo e nella lotta all’evasione consiste anzitutto nel far emergere con strumenti specifici questa enorme fetta di forza lavoro sommersa per lo più costituita da un esercito di lavoratori sfruttati, malpagati e senza diritti. La risposta del governo di fronte a questa sfida irrinunciabile è il più totale mutismo. IL GOVERNO SI LAVA LE MANI DEL MEZZOGIORNO – Alla luce di queste considerazioni, appare evidente la volontà del governo di sottrarsi dalle proprie responsabilità su un temi strategici come quello dello sviluppo delle zone sottoutilizzate e della convergenza economica e sociale. La manovra si inserisce perfettamente nel solco della impostazione antimeridionale che ha già portato negli ultimi due anni a smantellare strumenti e a prosciugare le risorse destinate allo sviluppo delle aree sottoutilizzate del Mezzogiorno.Il messaggio che si trasmette è il peggiore possibile ed è traducibile in un “cavatevela da soli”. In questo modo si tradiscono i valori di solidarietà e coesione che sono alla base dello stato unitario. Valori fondanti che costituiscono le pre-condizioni essenziali di ogni politica di sviluppo nazionale. Un concetto ribadito continuamente dal Capo dello Stato e evidenziato anche da Bankitalia, secondo cui “nel disinteresse delle politiche nazionali, immaginare che la politica regionale possa risolvere i problemi del Mezzogiorno è a dir poco velleitario”.In definitiva, questa manovra riflette in pieno una impostazione politica e culturale che si nutre di conflitto e di contrapposizioni divisive. Una impostazione che in questi due anni ha portato a prosciugare fondi e smantellare strumenti ideati per la convergenza delle zone deboli. La strada maestra che porta alle riforme strutturali che servono al paese va nella direzione opposta. TORNARE ALLA CONCERTAZIONE – Dalla tempesta economico-finanziaria che stiamo attraversando emerge un importante insegnamento: nelle società complesse, in particolare nei momenti di profonda crisi, i problemi si risolvono mettendo insieme le forze. Un concetto che avremmo dovuto interiorizzare già da molto tempo, in particolare dal lontano 1993, quando l’accordo sulla politica dei redditi riuscì a tirare fuori dalle secche l’Italia, aumentando il potere d’acquisto e ponendo le basi del risanamento economico. In un momento di grave congiuntura, l’Italia riusciva a trovare il massimo del consenso intorno alle riforme necessarie.Mai come adesso occorre tornare a quello spirito. Come allora anche oggi il Paese non può permettersi aspre contrapposizioni. Il muro contro muro rischia di allungare i tempi e di accendere conflitti sociali deleteri.Muoversi verso un modello di piena e responsabile cooperazione tra politica, istituzioni e parti sociali, significa percorrere la strada della mediazione e della piena condivisione delle responsabilità nella definizione delle riforme necessarie. Significa rinunciare a una politica divisiva e disgregante, fondata sulle contrapposizioni tra territori, categorie, fasce sociali. Significa lavorare intensamente per ristabilire un clima costruttivo e unitario in tutto il mondo del lavoro. Significa, soprattutto, rendersi conto che l’unica possibilità che l’Italia tornerà a crescere a ritmi sostenuti solo se comincerà a farlo nel suo insieme, a cominciare dalle sue aree deboli. DALLA PROTESTA ALLA PROPOSTA – Sostegno alle famiglie, al lavoro produttivo e alle giovani generazioni meridionali. Politiche fiscali specifiche per le piccole e medie imprese del Sud. Un piano infrastrutturale degno di questo nome. Lo sviluppo del Sud passa attraverso questi capitoli. È su queste priorità che occorre concentrare il lavoro e le risorse, per garantire un futuro di crescita e di sviluppo a tutto il Paese. Occorre tornare ai contenuti del della mozione Pd sul Mezzogiorno approvata a gennaio dal Parlamento. Un documento che impegna l’esecutivo a dare risposte su quattro capitoli fondamentali: 1)Il ripristino immediato delle risorse del Fas nazionale ingiustamente dirottate per coprire spese correnti e nazionali. 2)Il reinvestimento di queste risorse su infrastrutture e fiscalità di sviluppo. 3)L’istituzione di un piano che incentivi l’ingresso di almeno 100mila giovani diplomati e laureati nel mondo del lavoro, ed in particolare in aziende private. 4)Il potenziamento e l’allargamento degli ammortizzatori sociali a tutte le categorie attualmente fuori da ogni tipo di copertura e di trattamento garantendo almeno il 60 per cento del reddito percepito durante l’ultimo anno di lavoro. UN MESSAGGIO BIPARTISAN – Il profilarsi di una ulteriore e definitiva svolta antimeridionalista da parte del governo, rende più che mai urgente un forte appello da parte di chiunque creda nell’idea che lo sviluppo del paese non può prescindere da una politica nazionale incentrata sulle fasce e sulle zone deboli. Una battaglia per la verità cui dovrebbero sentirsi chiamati, al di là degli schieramenti politici, tutti coloro che reputano una priorità nazionale lo sviluppo delle aree depresse del paese. E che si riconoscono nelle parole del Capo dello Stato, secondo cui “affrontare la questione meridionale è un dovere della comunità nazionale e un impellente interesse comune per garantire all’Italia un più alto livello di sviluppo e di competitività: non c’è alternativa al crescere di più, e meglio, insieme”. UNA BATTAGLIA PER IL PD – In questa cruciale fase politica, il Partito democratico deve porsi da protagonista del rinnovamento politico e culturale, incarnando e sapendo trasmettere con la massima forza un sistema di valori profondamente alternativo rispetto alla deriva disgregante che muove questa coalizione di governo. Il partito deve porsi come punta di lancia di una azione mirata alla riscoperta dell’identità nazionale, nel solco del patriottismo costituzionale e progressista di grandi presidenti quali Pertini, Ciampi e Napolitano.Sul piano concreto, questo orizzonte si sostanzia nella valorizzazione di una politica di sviluppo nazionale incentrata sulla crescita delle zone sottoutilizzate e sul riscatto delle fasce deboli. Le tradizioni culturali e sociali che accomunano le nostre provenienze permettono inoltre un ulteriore passo in avanti, con l’avvio di una riflessione profonda sui limiti mostrati dal liberismo più spinto e sulla necessità di pervenire al più presto a nuovi modelli di sviluppo basati sul principio della democrazia economica.Come ha detto il Capo dello Stato, occorre dunque fare dell’unità e della solidarietà nazionale il “punto di forza e la leva essenziale” per arginare la “spirale di contrapposizioni” che blocca il PaeseQuesta da due anni è la battaglia condotta del Partito democratico. Ma solo se riusciremo a intestarcela pienamente, saremo anche in grado di vincerla.