LA LOTTA AL COVID IN UNA RSA
Scrive una mail alle 5 di mattino. ha appena iniziato il turno alla Rsa dove è direttore sanitario. Si rivolge alla Ats: “Fate i tamponi anche qui”, cerca di convincerli. In reparto lo chiamano pasionario, cita De André, viaggia zaino in spalla e sospira dicendo custodia (“che bella parola …”). mi sono dimenticata di chiedergli se è fidanzato. ******«Abbiamo remato in direzione ostinata e contraria nel mare in tempesta. Nessun caso di Covid, su 101 ospiti e 60 operatori. Non siamo primi della classe, non siamo eroi. Facciamo un lavoro che conosciamo bene, però. Nel tempo abbiamo stretto un patto con i parenti e, appena si è intravista all’orizzonte l’emergenza, abbiamo potuto dire loro: restate fuori dalla struttura, fateci fare il nostro mestiere. Intuiamo i rischi di ciò che accade. Continuate ad avere fiducia in noi». Con piglio, Francesco Manganelli, 60 anni, direttore sanitario di una Rsa ad est di Milano, Villa Arcadia di Bareggio, prende la parola. Scrive una mail alle cinque del mattino, mentre si trova in struttura, e la rivolge al direttore della Ats Walter Bergamaschi e all’assessore regionale alla Sanità Giulio Gallera. Lancia un appello pieno di spirito costruttivo e garbato, cosa assai rara in questo momento. «Nelle Rsa non abbiamo terapie per guarire o salvare gli anziani, ma siamo capaci di curarli valorizzando le loro risorse residue. Siamo abituati a lavorare con poche illusioni e molta empatia. In altre parole, sappiamo arrangiarci e adattarci. Ci prendiamo in carico le fragilità di ognuno: per noi sono persone, non numeri. Parlo anche per i miei colleghi delle altre Rsa, nessuno ha mai abdicato al patto di fiducia con le famiglie», assicura il medico geriatra. Per la prima volta dal 21 febbraio si concede una pausa di riflessione e chiede aiuto. «Lasciamo da parte quello che è stato, adesso abbiamo davanti una sfida doppia. Superare l’emergenza sanitaria, ma anche ribaltare l’immagine perdente e cupa che le Rsa si sono viste cucire addosso, descritte solo come concentrati di negatività», chiosa. E arriva al punto cruciale, la richiesta: «Riflettevo sul corposo ciclo di test sierologici che Ats sta per avviare. Perché farli solo su chi ha sintomi? Noi non abbiamo persone con febbre, ma anziani, malati di Sla e altri pazienti in stato vegetativo, dunque ancora più fragili. Chiedo che Ats faccia i test anche su un campione rappresentativo di ospiti e operatori asintomatici. In caso di sierologia negativa daremmo conto del fatto che, operando con attenzione, anche in presenza di mezzi limitati (le nostre prime mascherine erano in tessuto di cotone, self-made ), il contagio si poteva evitare. Nel caso opposto di sierologia positiva, dimostreremmo che gli ospiti sono stati curati bene e ciò a riprova che le case di cura sono luogo di cura, attenzione e non certo di trascuratezza». Per Manganelli le Rsa non possono restare passive ad incassare i colpi: «C’è bisogno di un buon esempio – sprona -. Ats non resti muta ma in tempi stretti decida di confrontarsi con chi è dentro le mura». Manganelli si è trovato a combattere una battaglia difficile come medico e come uomo e non depone le armi: «Abbiamo avuto fortuna ma soprattutto metodo. Siamo stati severissimi nella limitazione dei contatti fin dall’inizio chiudendo ermeticamente subito anche il centro diurno. Ai familiari che protestavano abbiamo detto semplicemente: fidatevi di noi. E loro si sono fidati». Si definisce «un tecnico al servizio delle persone»; e di sé dice: «Sono analogico», per dare ad intendere che, anche con indosso la mascherina e la tuta protettiva, preferisce comunicare di persona. I parenti sanno che possono chiamarlo a qualunque ora. Persino nei giorni più difficili, non è venuto meno a questo patto di informazione sullo stato di salute dei pazienti che ha in cura. «Possiamo dire in “custodia”. È così una bella parola…».
