ADDIO GIULIETTO CHIESA, COMPAGNO “COMPLOTTISTA”

ADDIO GIULIETTO CHIESA, COMPAGNO “COMPLOTTISTA”

Pochi giorni dopo Giuseppe Zaccaria ci lascia Giulietto Chiesa, un altro di coloro i quali, ai tempi dei bombardamenti sulla Jugoslavia, seppero contro chi stare. Contro la Nato e contro le bombe che colpivano i civili delle generazioni presenti, morti sotto le macerie, e quelli delle generazione future, messe a rischio dai bombardamenti sui petrolchimici e dall’uranio impoverito. Un punto di riferimento per me che all’Università di Bologna cercavo di informare le generazioni degli studenti sull’Italia in guerra, accogliendo il meglio del giornalismo internazionale di allora, come Andrea Purgatori ed Ennio Remondino. Venne anche Giulietto (tutti gratis, ovviamente), suscitando qualche timore nella direzione del mio Dipartimento. Non per ragioni politiche, va precisato, ma perché l’affluenza degli studenti fu tale che qualcuno temette per la tenuta dei pavimenti. Negli anni seguenti partecipai ad alcune sue iniziative, ai tempi della controinformazione sull’attentato dell’11 settembre. Mi beccai pure un suo rimprovero. Mi ero provato ad ipotizzare che in quell’attentato ci potesse essere lo zampino di chi, qualche anno prima poteva essere stato immanicato con la Cia e poi era stato scaricato. Da non dimenticare che i talebani erano intervenuti in Bosnia, in funzione antiserba, ma pare non lo avessero fatto in Kosovo, perché il controspionaggio americano non si fidava più di loro, dopo averli imbarcati per qualche tempo. E il capo della Cia di quei tempi, Tenet, fu poi l’unico che ci rimise il posto. Il mio intervento a Giulietto non piacque, in primo luogo per ragioni di metodo. Disse, più o meno, “Guai se provassimo a sostenere delle controverità. Abbiamo contro di noi media potentissimi. Ci metterebbero un nulla a trovare una piccola falla in quello che diciamo e ci distruggerebbero. Il nostro compito è invece quello di trovare dei punti, nelle loro versioni, che non stanno in piedi. E attaccarli lì, dove non sono in grado di difendersi”. Giusto, ma in parole povere, mi diede del complottista. Qualcosa su cui mi viene da sorridere, come lo si fa di fronte a un paradosso, ogni volta, e furono tante, che lo sentii oggetto a sua volta di accuse del medesimo tenore. Capita a tutti, in fondo, se la verità ufficiale non ti convince, di cercare qualcosa di differente ed è materialmente impossibile azzeccarle tutte. In tempi più recenti Giulietto Chiesa è stato reiteratamente accusato di essere troppo vicino a Mosca. Anche a me non sempre ha convinto ma, come dice Woody Allen, ciascuno deve pure prendere qualche punto di riferimento, o magari, dico io, assumerlo come tale al di là del dovuto. Ma credo che a nessuno capiti di evitare sempre questa trappola. E quindi la metafora del bue che dà del cornuto all’asino è sempre dietro l’angolo. Restano le sue interlocuzioni più o meno tattiche con la destra italiana. Mi sarebbe piaciuto parlarne, come di qualcosa di indigeribile. Vero che Lenin ebbe proficui contatti con la destra prussiana (questo mi avrebbe potuto obiettare, forte della sua prolungata presenza come corrispondente dell’Unità in terra sovietica) ma non so se il peso sullo stomaco mi sarebbe passato. Resta il ricordo di un uomo che suscita l’affetto di chi, come Vauro Sanesi, lo ha conosciuto e che con lui ha giocato partite decisive della sua esistenza. Magari in quella Kabul dove, nei luoghi dell’intervento di Gino Strada, Vauro e Chiesa si erano permessi di scherzare. Quando Sanesi aveva ridipinto un muro dell’ospedale con le sue vignette da toscanaccio malefico, che comprendevano anche la caricatura di Giulietto. La forza di scherzare, nei luoghi di una tragedia vissuta dall’interno del proprio essere, come quando, ricorda Vauro, aveva visto Giulietto piangere nel vedere il cadavere di una bambina uccisa dalle bombe. Il tempo passa e tutti noi con lui, l’importante è fare sì che i nuovi arrivi non facciano rimpiangere chi se ne va. E’ un compito che tocca assolvere anche a noi, sopravvissuti di turno.