TORNA A TORINO LA RUN 5,30

TORNA A TORINO LA RUN 5,30

Ho fatto la Run 5.30, corsa di 5 km alle ore 5.30 del mattino. L’ha inventata qualcuno da qualche parte e funziona, perché la città era piena di persone, qualche migliaio, che hanno pagato 15 euro per una maglietta gialla piena di colorante prodotta in Bangladesh, per correre per il centro di Torino quando tutti dormono, insomma una cosa, correre, che si può fare evidentemente gratis anche in centro a qualunque ora. La sveglia è alle 4.30, a quell’ora nel mio quartiere – San Salvario – vedo: un uomo che sgasa, brum brum, su una Seicento vecchiotta, la parcheggia, scende, siede sui gradini di una farmacia; più gruppi di ragazzi – alcuni mi sembrano molto giovani, maschi e femmine di quindici, diciassette anni – ancora vestiti da sera, da ballo, che camminano per via Madama Cristina; alcuni con la maglietta gialla della corsa attendono agli angoli amici in automobile che li caricano, assieme verso il centro. Il centro è invaso da uomini e donne gialle che camminano verso le piazze San Carlo e Castello. La musica la fanno gli uccellini, cip cip, perlopiù rondini, per fortuna i gabbiani sono al Valentino, qualche chilometro più in là. In piazza San Carlo molti si fotografano, qualcuno ha l’asta per i selfie, qualcuno trema, si scalda saltellando sul posto, la maglietta di manica corta, a quell’ora, in questo tardo inverno da fermo dà brividi. In piazza Castello alle 5.10 ci sono migliaia di persone; i vigili parlano del percorso con gli organizzatori, sciorinano i nomi delle vie come ripassassero la declinazione di un aggettivo greco. Ogni tanto qualcuno urla, e allora tutti urlano, l’urletto che si sente ai concerti poco prima dell’inizio e s’intravvede l’ombra della star sul palco, qui devono essere urletti indotti dal fotografo. Sui social, a quell’ora, è già pieno di quel che succede. Alcuni hanno i cappelli da vichingo, altri parrucche colorate. Non sarà certo il tempo, inteso come minor tempo impiegato, ciò che farà divertire di più: non abbiamo neppure i pettorali. Start. E si cammina. Per molti metri si cammina perché c’è troppa gente. Alle prime curve si fa l’imbuto, per cui prendi il passo – lento, turistico, mi accorgo che sto corricchiando alla velocità di quella davanti che cammina, e mi sento un po’ piciu – ma poi lo molli. Ci sono lavori in corso – «Devi proprio fare la 5.30 per accorgerti di quanti lavori in corso ci siano per il centro di Torino», facciamo battute, anche su qualcuno che deve avere problemi di dissenteria e sta attentando all’olfatto di cento e ancora cento persone che lo seguono. Non sembra una corsa, «Sembra che scappiamo da un attentato», humor nero, in quelle vie c’è stata piazza San Carlo, e però davvero: se qualcuno s’incespica, o sbanda, si finisce tutti a pancia a terra. Una volta – prima, prima di questi tempi di paure, com’era la paura? Ci pensavamo, di cadere, di essere calpestati, o quando accadeva – perché è accaduto, soprattutto negli stadi, la folla è quell’agente pericoloso che tutti, forse per fortuna, sottovalutano – si dava la colpa alla sfortuna? È questa la differenza con il prima, che in questo momento storico identifichiamo, o ci sembra di farlo, o ci dicono di farlo, un nemico? In galleria San Federico ci sono i clochard. Quasi tutti continuano a dormire nonostante le ciabattate di queste migliaia di punti gialli che fanno rumore, rumore di parole, risate, commenti, persone che si chiamano, ogni tanto di nuovo qualcuno urla, ci dev’essere il fotografo ufficiale, che è qualcosa che ormai sta ai selfie come l’agenzia viaggi a Skyscanner. Quel che manca è il Grande Fotografo, qualcuno che racconti il mondo, che non si fermi a comunicarlo con gli uh-uh del gruppo ma uno che prenda gli occhi del clochard svegliato da chi è sveglio da più di un’ora per corrergli ai piedi. Un ragazzo nero, con i pantaloni al fondo del sedere, sulla sella di una bici, guardava un negozio di mutande in via Roma, con le cuffie alle orecchie, alle 4.55. Guardava i puntini gialli con quello che mi è sembrato stupore, o forse volevo vedercelo io, forse era solo assonnato e non aveva voglia di andare al lavoro, forse guardava le mutande perché era in anticipo. Mi faccio il film: questo ragazzo dall’Africa nera, il deserto, i morti, le botte, il barcone, che cosa capisce di questi italiani che scendono a correre all’alba? Però, ecco, non gliel’ho chiesto. E rimango con la mia immagine. Verosimilmente, invece, degli uomini gialli che corrono all’alba non ha alcun interesse, è molto probabile questo non sia un pensiero che va a modificare il quadro delle sue domande sulla vita. Il cielo era bellissimo quando il blu sfumava nel chiaro alla partenza, all’arrivo è ormai giorno. Ci danno ciliegie e c’è pure lo sponsor, una scatoletta di tonno. C’è la coda: ubi gratis, ibi italians. Cerchiamo un bar, altro che frutta. Vogliamo cornetti. I chilometri, alla fine, sono stati 4,77. Forse i 230 metri li ho persi quando camminavamo, ho fatto clic sull’applicazione al primo cenno di corsa. Un gruppo di donne ci chiede se siamo del posto, dove è un bar. Si sono fatte 50 chilometri per esserci, dicono, e alle 8 devono essere in ufficio. Guardo l’ora, sono appena le 6.10. Al bar c’è la coda, niente bar. Rientro nel mio quartiere, vado a un’edicola, i giornali non sono ancora arrivati. Ci saranno attorno alle 7. Vado al bar, prendo la brioche. Arriva un signore tutto lustro con un abito che sembra preso da una sfilata, un’automobile blu scura con il cambio automatico che parcheggia sulla mezzeria di via Madama. Ordina un caffè, lascia la mancia. Ha l’aria di ha per mestiere quello di fare cose che muovono molti soldi, magari quello che decide di sponsorizzare la 5.30, magari è lui che ha scelto di investire donando a ogni corridore una scatoletta di tonno, migliaia di scatolette di tonno che devono produrre un ritorno. «Altresì detta: migliaia di persone con un ca@@o da fare», scherzava il mio amico, proponendo – mentre ci fotografavamo attorno – il sottotitolo per la corsa. L’uomo esce dal bar. «Ci hanno dato anche le ciliegie e il tonno!», dico, rientrando a casa. Ma le ho lasciate a un clochard in via Roma, dormiva. Aveva un articolo di giornale in un foglio di plastica, accanto al vassoio per le offerte, c’era scritta la sua storia, aveva perso casa e lavoro.