CRONACHE DAL FRONTE (PUNTATA N. 39)
C’è il nonno di Savona che si è lanciato dalla finestra perché era ormai da un mese che non vedeva il suo nipotino. Logorato dalla solitudine, non ce la faceva più a vivere così. C’è il giovane di Carmagnola, in provincia di Torino, che si è impiccato in casa dopo che la sua azienda gli ha comunicato il licenziamento causa lockdown. C’è l’imprenditore padovano che si è soffocato con un sacchetto di cellophane calato sulla testa, dopo aver scoperto di essere positivo al tampone. Ha lasciato un biglietto davanti la porta di casa con su scritto: “Chiamate il 118. Non entrate. Qui è tutto contaminato”. Potrei continuare. Perché è dannatamente lunga la lista di quelli che non ce l’hanno fatta a reggere lo stress e la paura. E’ la Spoon River della disperazione. I loro nomi e le loro storie non finiscono nel Bollettino Quotidiano della Protezione Civile, ma sono anch’esse vittime del virus, a tutti gli effetti. Covid-19 li ha attaccati non al corpo ma alla mente, non ai polmoni – come di solito accade – ma ai nervi, facendone vacillare improvvisamente le certezze oppure oscurandone il futuro, senza che avessero il tempo e la forza di farsene una ragione. Hanno ceduto di schianto. Trasformandosi in facili prede della disperazione. Leggere le storie di questi suicidi è come recitare un altro rosario di sofferenze e di dolore, che va ad aggiungersi a quello ufficiale delle 25mila vittime che il virus ha già mietuto, contagiandole e portandole alla morte, direttamente. I suicidi, i tanti suicidi, vanno considerate invece le vittime indirette, i suoi danni collaterali. E il virus li ha fatti sfruttando soprattutto la paura che è riuscito a instillare in tutti noi. Non si sa esattamente quanti siano i suicidi di questo periodo, e forse non c’è nemmeno tanta voglia di saperlo. Non a caso le loro storie trovano poco spazio sui giornali e in tv, al massimo qualche trafiletto nelle pagine interne: per pudore forse, uno strano senso del pudore, o forse per paura di demoralizzare chi legge, ascolta e guarda, per non seminare così il panico. Io penso invece che ricordare chi ha ceduto e si è dato per vinto sia una forma di rispetto e anche un omaggio dovuto, sia pure postumo. Altrimenti chi mai saprebbe del ragazzo senegalese 26enne che il 1° aprile si è gettato nel vuoto dalla finestra del bagno del suo appartamento a Milano? Aveva appena ricevuto una chiamata dal suo datore di lavoro, proprietario di un negozio di alimentari in zona Navigli. Che l’aveva licenziato, pare. A Monza invece si è tolta la vita il 24 marzo un’infermiera che lavorava nel reparto di terapia intensiva dell’Ospedale San Gerardo. Lei che pure aveva assistito tanti malati, viveva da giorni nella paura di aver contagiato altre persone. Nel pisano, poi, quattro sono stati i suicidi e uno tentato, solo nella prima settimana di aprile. L’unica vittima illustre, a cui sono stati concessi gli onori della cronaca, è stato il ministro delle finanze della regione Assia, in Germania. Secondo i suoi colleghi di governo, Thomas Schaefer – questo il suo nome, l’unico che conosciamo – si è tolto la vita il 29 marzo perché temeva di non poter soddisfare le aspettative della popolazione in fatto di aiuti finanziari per contrastare questa emergenza. La storia più struggente però è quella delle due sorelle marocchine, in Italia da una decina d’anni, che sono state ritrovate suicide a Venezia, poco dopo la mezzanotte del 7 aprile. Avevano preso un traghetto per il Lido, uniche passeggere, e dopo un po’ il comandante si è accorto che non c’erano più. Le avrebbero ritrovate in acqua, nella laguna, che ancora si tenevano per mano. Avevano lasciato entrambe le scarpe sotto i seggiolini. Non è chiaro se il loro gesto sia da mettere in relazione a questa emergenza. Ma è una storia che di certo non dimenticherò. Nemmeno quando tutto sarà alle spalle. P.S. La disperazione secondo Vincent Van Gogh
