LETTERE DA UN PAESE CHIUSO 60-ITALIANI SENZA FRONTIERE, E FRANCESI SENZA PORTAEREI
Ho pensato spesso a loro. Ogni volta che le cronache riferivano di italiani bloccati in Florida dopo la chiusura di Disneyworld, o fermi a Santo Domingo, impossibilitati a rientrare a vacanza finita, o studentesse a Bilbao riportate a casa solo grazie a un tassista generoso. Loro, gli italiani in divisa in giro per il mondo, 39 missioni, in genere in posti difficili. Sono stato spesso loro ospite, ho diviso con loro pericoli e nostalgie, pizze e selfie. Ma quelli in Libano, no. Conosco il paese, ci sono stato la prima volta nel 1983. Tempo di attentati e guerra civile, il muezzin che ci svegliava dal minareto accanto all’albergo con la preghiera dell’alba, le erbacce che crescevano sulla linea verde, i negozi con gli umidificatori per i sigari in insospettabili scantinati, il casinò di Jounieh aperto nonostante tutto, il rumore allegro dei piattini del mezè libanese che coprivano l’eco delle sparatorie, il ribollire dei campi profughi palestinesi, le cicatrici di Sabra e Chatila. Anche allora c’erano gli italiani, e ricordo ancora il nome del marò di leva che perse la vita in quella missione, colpito alle spalle: Filippo Montesi, da Fano: non aveva ancora vent’anni, oggi ne avrebbe cinquantasette. E poi le ho viste, quelle terre a sud del fiume Litani, verso il confine con Israele, prima dalla parte libanese. C’è un punto che non dimenticherò mai: il sepolcro di un sant’uomo che sta proprio sulla linea di confine, e la tradizione vuole che sia venerato dagli uni e dagli altri, dagli sciiti di qua e dagli israeliani di là. A fare la guardia c’erano caschi blu ghanesi, e una lastra di plexiglas che impediva agli opposti veneratori di sputarsi addosso. I caschi blu ghanesi guardavano come se fossimo noi bianchi i primitivi di turno, e non avevano torto. Poi dalla parte israeliana, durante i 34 giorni di guerra tra Israele ed Hezbollah, dopo che i guerrieri di dio erano penetrati in Israele uccidendo tre soldati. L’ultima volta ci sono passato, a Beirut, solo per andare e tornare dalla Siria. E’ un viaggio di un’ora, se non ci fossero le lungaggini del confine: si lascia la costa mediterranea, si salgono le montagne che consentono di sciare e fare il bagno nello stesso giorno, e si scende di nuovo verso i deserti siriani. Ma andavo a cercare altro, non i militari italiani. E così posso solo immaginarli, questi connazionali con il casco blu delle Nazioni Unite, in quelle telefonate serali a casa. Li ho sentiti tante volte, negli stanzoni in cui possono parlare, divisi da uno scomparto di legno, tramite i ponti radio gratuiti del Ministero: come stanno i bambini, e mamma e papà, e qualche bugia quando dicono qui tutto tranquillo. Ma non riesco a immaginare le telefonate, adesso che sono loro a dover chiedere come va davvero a casa, in Italia, il pericolo è da tutte e due le cornette. Sono 1200 i militari italiani -secondo contingente per numero, dopo gli indonesiani – e dunque vuol dire che in Italia ci sono almeno 1200 famiglie preoccupate per loro, e che loro si preoccupano per almeno 1200 famiglie. I nostri stanno tutti bene, laggiù: dispositivi di sicurezza, medici, termoscanner all’ingresso delle basi, anche se il distanziamento sociale è qualcosa di difficile in un contingente militare. Anzi, siccome le precauzioni nel contingente italiano in Libano sono state prese dall’inizio del mese di febbraio, sono loro che spesso hanno dovuto insistere con i famigliari perché fossero prudenti, a casa, in Italia.Il coronavirus, quanto a numeri, è un’altra cosa, in Libano. Un paese di 4 milioni e duecentomila abitanti con 553 positivi, 21 decessi, 103 ricoverati. Ma il Libano è il paese che la mondo che, in proporzione ai suoi abitanti, ospita il maggior numero di rifugiati: un milione di siriani e mezzo milione di palestinesi, nati qui, ma considerati profughi: tra loro i dati ufficiali annaspano. E si confondono con l’altra emergenza, quella economica: il governo ha annunciato il default il 7 marzo, pochi giorni prima di un lockdown – coprifuoco dalle 19 alle 5 del mattino – che tutta l’economia marginale, dai tassisti ai rivenditori ambulanti, non possono fare a meno di ignorare: o la fame o il coronavirus. Tanto che perfino il coprifuoco è stato sfidato da cortei di protesta contro la corruzione, l’aumento dei prezzi, e l’unico collante di un paese diviso da religioni e disparità sociali è la gratitudine verso medici e infermieri, in un paese ricco di laureati e diplomati ma povero di infrastrutture sanitarie. Che il Paese si trovi a un momento cruciale è parso evidente da uno dei rari discorsi del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah. Più che raro, è stato l’unico in cui non ha menzionato Israele, il nemico di sempre. E invece ha tuonato contro le banche che negano ai libanesi il ritiro dei propri risparmi: “Pensate all’aldilà, a cosa direte al Signore, voi che vi siete aggrappati ai soldi che a causa della crisi mondiale, rischiano a breve di trasformarsi in carta straccia senza valore”. E ha attaccato il governo per la sua riluttanza ad accettare il rientro dei lavoratori libanesi in Africa, degli studenti libanesi in Europa, per il timore che siamo portatori di contagio.La chiusura, oltre che dell’unico aeroporto, anche delle frontiere terrestri ha voluto dire -quella con Israele è sigillata da sempre – chiudere gli unici altri valichi di terra, quelli con la Siria. E quello è stato in questi anni di guerra il cordone ombelicale di Damasco con il mondo. Il 20% dei depositi bancari libanesi appartiene a cittadini siriani. La crisi economica libanese ha trascinato con sé la Siria, che contava sul sistema bancario libanese per aggirare le sanzioni (del favoloso Libano degli anni ‘60, che veniva chiamato la Svizzera del Medio Oriente, l’unica cosa rimasta è il segreto bancario). La Siria adesso appare distante dal contagio (appena 31 positivi, 3 decessi, 5 ricoverati) ma anche dall’ idea di ricostruzione, dopo un decennio di guerra.I nostri connazionali in casco blu sembrano essere al riparo da queste turbolenze, anche perché il Libano ha da sempre fatto della instabilità il segreto di un proprio acrobatico equilibrio. Per Costituzione il presidente della Repubblica è cristiano (cristiano maronita, perché c’è un’altra dozzina di comunità cristiane) il primo ministro è un musulmano sunnita, il presidente del parlamento è un musulmano sciita). Ma dal 1932 non si fanno più censimenti per non rompere questo fragilissimo giocattolo istituzionale chiamato confessionalismo. Dunque poco da temere, specie al confine con Israele, il Libano ha altro cui pensare.E del resto, non è sempre il “teatro”, il terreno d’impiego, come lo chiamano i militari l’insidia peggiore, specie in tempi di coronavirus. Lo dimostra la vicenda della portaerei Charles De Gaulle. A gennaio salpava in missione nel Mediterraneo, salutata con orgoglio dalla Francia. A febbraio la nave aveva fatto scalo a Cipro. Poi, in rotta verso il mare del Nord, a metà marzo, a Brest, sulla costa atlantica. Dove l’equipaggio ha potuto scendere, incontrare famigliari, andare nei bar e nei ristoranti. E 52 nuovi membri aggiungersi ai commilitoni. Per qualche giorno il moltiplicarsi di raffreddori è stato attribuito alle temperature rigide che la portaerei incontrava andando a nord. Poi di colpo, il 5 aprile. l’infermeria si è riempita, e i sintomi erano quelli del Covid 19. Confermati dall’invio degli esami a terra. Missione interrotta, prua verso il rientro, e massiccia quarantena in una base militare. Un solo marinaio è in terapia intensiva ma la situazione è perfino imbarazzante per i portavoce della marina francese. Hanno dovuto ammettere che, come certe navi da crociera, la portaerei era impreparata a un evento di questo tipo. La Charles De Gaulle – unica, essenziale e simbolica portaerei della Francia- è al momento inattiva e inutilizzabile: il 60% dei 1746 membri dell’equipaggio è infetto, 500 tra loro asintomatici. Tutti a terra, singolare modo di celebrare questo 22 aprile, Earth Day, Giornata della Terra.
