CRONACHE DAL FRONTE (PUNTATA N. 53)
E niente, non ce l’ho fatta. Ci sono ricascato. Come il più marcio dei tossici o il più incallito degli alcolisti. Pensavo cioè che fosse giusto chiudere questo COVIDiario il 4 maggio, in occasione del tanto agognato ritorno alla normalità – parziale, molto parziale – e poi però, inebriato da quello che ho visto per strada e dalla varia umanità che ho incontrato, ho deciso di tornare sui miei passi, di riprendere a scrivere, magari non più con la regolarità di prima, ma con la stessa voglia di raccontare; quando serve e quando ne ho voglia. Perché lì fuori c’è tutto un mondo nuovo che si sta schiudendo sotto i nostri occhi e che non si riduce certo a ciò che fa notizia sui cosiddetti media mainstream. C’è innanzitutto la paura degli altri che si cela dietro queste buffe mascherine che ci rendono tutti irriconoscibili eppure tutti uguali, c’è poi l’angoscia di chi ha riaperto la sua attività ma dubita di poter risalire la china, e c’è infine l’incertezza di questa strana normalità precaria che non si sa quanto dovrà durare ma che ci costringe già, ogni giorno, ad essere i controllori, cioè gli sbirri di noi stessi. Liberi, quindi, ma timidi come ex-prigionieri che non non sono più abituati alla vita fuori dalla cella. Senza entusiasmo, quindi. Ottimisti, forse, ma con juicio, molto juicio. Eppure ieri, 4 maggio, abbiamo respirato tutti a pieni polmoni. Come chi è rimasto sott’acqua e può finalmente riempirsi d’aria la bocca. Qui a Roma era una giornata bellissima, sole caldo e cielo terso. Io mi sono vestito a festa, sono sceso in strada e la mia prima occhiata è andata verso il bar. Quando ho visto che non c’erano i soliti quattro tavolini fuori ho pensato di suicidarmi, perché a quel punto continuare a vivere non aveva senso. Poi però, con la coda dell’occhio, ho visto che la saracinesca non era giù ma sollevata, e che i tavolini erano stati piazzati sulla sulla soglia d’entrata, a mo’ di barriera. Di là c’era il mitico Andrea, che serviva caffè nei bicchierini di plastica, da bere ovviamente fuori. “Kava, kava”, mi ha subito urlatp – lui ci tiene alle sue origini croate per parte di madre – e nel sorridere la mascherina gli si è tesa in faccia. Confesso che mi sono commosso, E il caffè l’ho centellinato a lungo, manco fosse un nettare prezioso. Anzi lo era, come può esserlo solo il caffè agognato dopo due mesi di astinenza. E’ un po’ come mi capita quando rientro – o devo dire: rientravo? – dai miei viaggi più lunghi: a Fiumicino, la prima cosa che facciamo Simone ed io, è gustarci un buon caffè espresso, in modo da cancellare il ricordo e il sapore delle troppe brodaglie che abbiamo bevuto. Andrea però mi spiegava che, se prima faceva quasi 150 caffè in un’ora, ieri la media non ha superato i 30. E in più la gente si è limitata al caffè: niente cornetti – solo 10, prima se ne vendevano almeno 100 al giorno – e niente bevande o altro. Per non parlare delle bollette arrivate nei due mesi di chiusura, coi frigoriferi che dovevano restare accesi. Il quadro insomma non è confortante. Anche se c’è il sole e il cielo è terso. P.S. In foto, il mitico Andrea, nel suo fortino
