A PROPOSITO DELLA DIFFAMAZIONE A MEZZO STAMPA.
Un’altra sentenza di condanna per dei giornalisti rischia, almeno più avanti, che ancora siamo solo alla conclusione del primo grado, di rinfocolare le polemiche sulla questione relativa alla diffamazione a mezzo stampa. E speriamo si tratti di discussione e non di polemiche, che sarebbe ora che su questo argomento si discutesse con calma, e non si banalizzasse la questione, di per sè delicata, con le solite italiche polemiche, sterili e controproducenti. Il fatto è semplice nella sua nuda banalità di cronaca giudiziaria. Un giornalista di Panorama, Andrea Marcenaro, scrive un pezzo dal titolo “Aridatece Caselli”, a cui collabora il presidente dell’ordine dei giornalisti siciliani Riccardo Arena. Il Procuratore di Palermo, Messineo, si sente diffamato dall’articolo, che non ho letto e su cui non posso esprimermi (ammesso che la cosa possa, comunque, avere rilevanza), e querela i due giornalisti. Viene, naturalmente, coinvolto anche il direttore del settimanale Giorgio Mulè. Il Tribunale di Milano, la scorsa settimana, emette la sentenza di primo grado: un anno al direttore ed al giornalista di Panorama, un anno con la sospensione condizionale per il giornalista siciliano. Il Dott. Arena sulla vicenda ha scritto un pezzo, davvero molto delicato ed interessante suun quotidianoon line, parlando del caso, e soprattutto della sua esperienza. Lui giornalista di giudiziaria, si trova in una posizione inedita, quella dei soggetti su cui abitualmente scrive, e ci si trova, giustamente, a disagio, Ma questo non gli impedisce di ritrovare l’aplomb del bravo giornalista per fare alcune osservazioni interessanti, su uno dei temi che più sta prendendo, negli ultimi tempi, centralità nel dibattito pubblico: il reato di diffamazione a mezzo stampa. Il punto del suo pensiero, che nell’articolo è tra le righe, ma che apertamente espreme in un’altra intervista, è che non può, in un Paese democratico, essere previsto il carcere per chi svolge l’attività giornalistica, e si limita a raccontare fatti, esprimere idee. Nelle stessa direzioni le dichiarazioni dell’Associazione giornalisti siciliani, che sottolineano pure come le condanne sono quasi la normalità quando il querelante è un magistrato. Proviamo a svolgere alcune considerazioni, senza alcuna pretesa di esaurire l’argomento, che di per sé è troppo ampio ed importante, andando a coinvolgere valori sacri della nostra Costituzione, libertà di pensiero, libertà di informazione, diritti della persona. Partiamo da un punto, il rispetto della persona, di tutte le persone, non può non comprendere la tutela della sua immagine, pubblica e privata. In ciò rientra, sicuramente, anche il diritto di ognuno a non essere colpito nell’onore e nel decoro; se così non fosse non si avrebbe una tutela completa della persona. E poiché, spesso e volentieri, un’offesa o una notizia infamante può fare più male, e per inciso anche più danno, di un’aggressione fisica, non credo che si possa non convenire che la tutela dell’integrità morale dei soggetti sia un fine da perseguire ciecamente. All’altro estremo vi è il diritto di libertà di pensiero, ed in più quello di essere informati, che sono diritti essenziali perché una democrazia possa svilupparsi e mantenersi tale. Il problema è il giusto punto di incontro tra i due estremi. Ora la giurisprudenza negli anni ha elaborato dei concetti che cercano di mantenere il giusto equilibrio tra i valori sopra citati. Ma si tratta pur sempre di indirizzi elaborati dall’uomo e applicati da uomini. L’errore ci può stare, sia nella formulazione teorica che nelle successive applicazioni pratiche. Un dato non credo che possa essere revocato in dubbio: il diritto di informare, il diritto di criticare, il diritto di raccontare fatti non equivale al diritto di diffamare il prossimo. Si può narrare senza inventare, si può criticare senza offendere. Anzi si deve. Certo, esisteranno sempre zone d’ombra, momenti in cui un’opinione si trova in limine rispetto all’offesa. Ma ciò non penso sia possibile rimuoverlo, neanche con la migliore riforma possibile. Il problema centrale, che è diventato un mantra per i giornalisti, è quello di non prevedere il carcere per il reato di diffamazione a mezzo stampa. E’ un’ipotesi percorribile? Sicuramente, ma con alcune precisazioni, sia generali sia temporali. Per quanto riguarda le prime, l’abolizione del carcere, che poi per il reato di ingiuria/diffamazione è più teorico che pratico, dovrebbe essere completo. Non si potrebbe, cioè, prevederlo per quei reati se commessi da un cittadino, e non se commessi da un giornalista nell’esercizio delle sue mansioni. Questa ipotesi sarebbe icto oculi incostituzionale, perché se è vero che la particolarità dell’attività d’informazione potrebbe creare la giustificazione teorica a questa ipotesi, di contro la maggiore gravità del reato, commesso tramite un organo ad ampia diffusione, farebbe venire meno tale giustificazione. Dunque se si volesse prevedere una depenalizzazione dei reati d’opinione, essa dovrebbe coinvolgere le norme per intero. Certo sarebbe una tutela altrettanto importante prevedere solo sanzioni pecuniarie, e diciamoci la verità spesso le vittime di questi reati puntano solo al risarcimento, fregandosene della galera per il diffamatore/ingiuriatore. Dunque è un’ipotesi che de iure condendo potrebbe essere fatta. La domanda, a questo punto, diventa: sarebbe possibile, od opportuno, farlo ora? Su questo ho i miei dubbi. E la ragione è semplice. In un periodo di rottura delle regole del vivere civile, in un momento storico di fortissime tensioni politiche, ai nostri giorni dove perfino le regole minime di educazione sono venute meno, far diminuire la tutela morale di cittadini, politici, magistrati, e quant’altri hanno un’esposizione pubblica sarebbe davvero una buona idea? Sinceramente credo di no. Soprattutto quando, come accade oggi in Italia, gli stessi giornali sono diventati un mezzo di lotta politica senza quartiere, usati per denigrare, anche in maniera insopportabile, l’avversario, quando vi è una scomparsa delle più basilari regole deontologiche e civili. In questo clima di decadimento generale, e ripeto generale, non solo relativo alla categoria dei giornalisti, ma a tutti indistintamente, no. In questo momento non è possibile diminuire la tutela delle persone, sarebbe uno stillicidio giornaliero di notizie non controllate, di portieri diventati informatori, di fonti anonime che spuntano come funghi. Ed il discorso, spesso sentito, in cui si fa il paragone con gli altri Paesi europei non tiene proprio. Solo in Italia vi è un clima da guerra civile strisciante, solo in Italia il dibattito pubblico è avvelenato da vent’anni di dittatura morale silenziosa, che ha corrotto la società, acceso gli animi, spaccato la popolazione. Quando tutto questo finirà, quando la società italiana tornerà ad essere regolata da valori quali il rispetto del prossimo, l’accettazione di regole condivise, quando capiremo, tutti, che qualunque divisione – politica, sportiva, razziale – è meno importante dell’altrui soggettività, solo allora potremo pensare a normare i reati d’opinione, trasformandoli in altro. Nel frattempo chi svolge, per professione, il compito di informare la collettività, lo faccia secondo le regole attuali, che sono comunque tali da permettere una corretta informazione. Anzi, in Italia, oggi, il problema non sono solo e tanto le norme penali a tutela delle persone a rendere difficoltoso il ruolo dell’informazione, quanto la presenza di giornalisti indipendenti e liberi, che abbiano voglia di fare questo mestiere. Voglio chiudere queste brevi riflessioni riportando le righe finali dell’articolo di Arena perché racchiudono una splendida riflessione. “Quel che è certo è che ripensi a tutte le condanne (degli altri) a tutti i processi (degli altri) a tutte le indagini (sugli altri) di cui hai scritto e ti chiedi se hai sempre rispettato gli altri, la verità processuale – quella reale lasciamola a Nostro Signore – e la sostanza dei fatti. La risposta non te la puoi dare da solo. Devi interrogare la coscienza e potresti non trovare quello che cerchi. È lavoro, ti dici: lo hai fatto solo per lavoro. Ma quando il lavoro sei tu, non è più la stessa cosa.” Ecco, finchè vivremo nell’Italia di oggi, in attesa dell’Eden di quella del futuro, una buona idea è quella di interrogare le nostre coscienze. Ma attenzione, non solo per chi scrive, ma per chiunque, in qualunque campo si muova. Vi è solo un dubbio che mi fa chiedere se ciò sia sufficiente. Il dubbio è che possa aver ragione Corrado Guzzanti, quando, ad un personaggiodi qualche hanno fa, faceva dire questa battuta: la risposta è dentro di te, solo che è sbagliata.
