CASO CUCCHI. UNA SENTENZA CONTROVERSA.

CASO CUCCHI. UNA SENTENZA CONTROVERSA.

“Non mi uccise la morte ma due guardie bigotte, mi cercarono l’anima a forza di botte”. No, questa frase di una canzone di De Andrè non si confà alla storia di Stefano Cucchi. Almeno così ha deciso la III Corte d’Assise di Roma, che nel pomeriggio ha condannato i sei medici, portati alla sbarra dalla Procura di Roma, ma ha assolto, oltre agli infermieri, anche le guardie penitenziarie, che erano accusate di lesioni nei confronti della vittima. Questa è una brutta storia, bruttissima; ma meno inconsueta di quanto si possa immaginare. Solamente che il protagonista di questa brutta vicenda di pestaggi ed omissioni, favoreggiamenti e abusi, ha avuto più sfortuna di altri, che pure in mezzo a quell’inferno ci sono passati. Era il 15 ottobre 2009, un giovane di 31 anni, geometra, tossicodipendente, viene trovato in possesso di sostanze stupefacenti. Una situazione che potrebbe capitare a molti. Viene arrestato e portato in carcere. Il giorno dopo si svolge l’udienza della direttissima; viene convalidato l’arresto e disposta la misura cautelare della custodia in carcere. Quel giorno il giovane si presenta davanti al magistrato con ematomi sotto gli occhi e con gravi problemi a deambulare. Eppure scambiando due parole col padre gli dice di non essere stato picchiato. Parole che, come spesso accade nelle aule di giustizia in questi casi, saranno state rubate a solerti guardie penitenziarie, che con zelo cercano di impedire queste comunicazioni pericolosissime, ma che appaiono, agli occhi di chi le osserva, come quel contatto umano e familiare che permette ai detenuti di tirare avanti. Comunque il processo, dopo la convalida e l’applicazione della misura cautelare, viene rinviato. Ma non vi sarà mai l’udienza di trattazione. Dopo una settimana, infatti, il giovane Cucchi morirà nell’ospedale Sandro Pertini di Roma. Sin dal giorno dopo la convalida le sue condizioni peggiorano. Al Fatebenefratelli, dove viene visitato, gli refertano lesioni ed ecchimosi al viso, al torace ed all’addome. Ma lui rifiuta il ricovero, pure richiesto dai medici dell’ospedale. Torna in carcere, ma le sue condizioni peggiorano ulteriormente. Il 22 ottobre, una settimana dopo l’arresto, muore al nosocomio Pertini. Quel giorno pesava 37 Kg (per un metro e 76 di altezza), al momento dell’arresto aveva ben 6 chili in più. Da questo momento iniziano i depistaggi, le omertà, le bugie e, purtroppo, gli sciacallaggi politici, in cui si è distinto il crociato antidroga Giovanardi, che ebbe il coraggio di dire che il ragazzo era morto di anoressia e tossicodipendenza, ma almeno questa storia si è conclusa bene, ed il nostro salvatore morale ha dovuto porgere le scuse alla famiglia Cucchi. Per fortuna chi non ha taciuto sono stati gli altri detenuti di Regina Coeli, molti hanno testimoniato di aver avuto la confidenza da Stefano di essere stato picchiato, e addirittura una detenuta ha detto di aver visto il pestaggio. Per la Procura la morte sarebbe stata causata dalle lesioni susseguenti ai pestaggi, dal digiuno (che causò l’ipoglicemia), dalla mancata assistenza medica, dai danni al fegato e da quelli alle vie urinarie (la sua vescica fu trovata piena di urina, che aveva cominciato ad invadere il resto del corpo). Per capire la gravità delle lesioni è sufficiente guardare su internet le foto scattate al momento dell’autopsia, e vergognarsi di vivere in questo Paese. Per i periti della Corte D’Assise di Roma, le cause della morte sono dovute alla mancata assistenza medica, per cui il ragazzo è morto per carenza di cibo e liquidi. Ma la Corte di primo grado ha deciso diversamente. Solo i medici del reparto del Sandro Pertini sono stati condannati, e non per i reati loro contestati, ma per omicidio colposo e falso. Le condanne riguardano il primario del reparto Dott. Fierro, 2 anni con pena sospesa, i dott.ri Di Carlo, Corbi, De Marchis e Bruno, un anno e 4 mesi con la sospensione, e la dott.ssa Caponnetti, 8 mesi per falso. Assolti invece, come detto, gli infermieri, con formula piena, e le guardie penitenziarie. Alla lettura della sentenza, nell’aula bunker del carcere di Rebibbia, è scoppiata la contestazione del pubblico che ha cominciato ad urlare “assassini”. Amarezza anche da parte della sorella di Stefano, Ilaria, che ha già annunciato che non si arrenderà e continuerà a cercare la verità. D’altra parte siamo solo al primo grado di giudizio. Ciò che davvero fa male alla famiglia, e il padre in un’intervista della mattina l’aveva detto, è il momento del pestaggio. Aspettiamo di conoscere le motivazioni, per sapere il perché dell’assoluzione degli agenti della Penitenziaria; soprattutto capire se per la Corte pestaggio vi fu o no, e in caso affermativo capire se non potesse essere imputato agli agenti accusati, per mancanza di prove che riferissero a loro il fatto, o per altri motivi. La sentenza li assolve, comunque, col secondo comma dell’articolo 530, e dunque per insufficienza di prove. Al momento rimane solo la rabbia, giustificata, dei familiari, ed ancora tanti, ma tanti, dubbi. La speranza, che ogni cittadino dovrebbe coltivare, è che quella morte sia stata solo un caso di malasanità, piuttosto che un caso di tortura da parte di esponenti dello Stato; anche se le foto citate sopra lasciano pochi dubbi. Al momento, comunque, la verità processuale ci dice che nessuno cercò l’anima di Stefano a suon di botte, ma solo l’imperizia dei medici causò quella tragedia.