NON E’ MAI ESISTITO UN FASCISMO BUONO

NON E’ MAI ESISTITO UN FASCISMO BUONO

Vi sono stati due fatti, negli ultimi tempi, che mi hanno fatto riflettere, e che sono causa di queste mie righe. Il primo, un fatto locale relativo alla città di Brescia. Attiene alla polemica, sorta in città, a seguito del progetto dell’amministrazione comunale di ricollocare, presso il sito originario, una statua, detta “il Bigio”, di epoca fascista, e rappresentante un fascistissimo nudo maschile; statua tanto amata dal Duce in persona. Gran parte della città, ANPI in testa, critica ferocemente questa scelta. La seconda vicenda attiene alle parole pronunciate il 25 aprile dal Presidente della Camera, a Milano. La Boldrini, in risposta ad un polemica scatenata dalla capogruppo del M5s alla Camera, ha detto “Non è mai esistito un fascismo buono”. Ora sia subito chiaro un punto, onde evitare il pruriginoso voltastomaco di certi intellettuali simil-liberali, concordo pienamente con l’affermazione della Presidente Boldrini. Non può esistere un regime, ed in primis in quanto tale, buono. Men che meno se basato sulla sopraffazione fisica di ogni oppositore, sulla violenza, sulla soppressione di fondamentali liberà individuali. Chiuso e chiarito, spero una volta per tutte, ed in maniera chiara, il superiore punto, mi rimane in mente una domanda. Premesso, e lo ripeto per la felicità degli intellettuali sopra ricordati, che non esiste un fascismo buono, è ugualmente vero che non vi è stato nulla di buono nel fascismo? Non inteso in senso di dottrina politica (forse esagerata questa definizione), ma all’interno della deriva autoritaria, e dei suoi epigoni, sono rintracciabili fenomeni, idee, movimenti e quant’altro che meritino una valutazione che non tenga conto del giudizio generale sul ventennio? In altre parole, tutte le migliori menti italiane sono emigrate, state uccise, rifugiate all’estero o silenziate, lasciandoci in balia solo di feroci e ignoranti gerarchi? E’ pensabile un fenomeno del genere, anche tenendo conto della legge dei grandi numeri? Direi di no. Ed allora, senza voler avere nessuna pretesa di completezza, vorrei solo accennare ad un paio di ipotesi, in cui, pur nel vuoto sociale e politico di quel periodo, si possono riscontrare idee di valore. Il primo di questi esempi, e già immagino il salto sulla sedia del mio amatissimo intellettuale paraliberale, è l’ordinamento corporativo. L’idea che sta alla base dell’ordinamento corporativo fascista, ma anche di altri regimi autoritari, è qualcosa che precede il fascismo stesso. E’ un’esigenza che si manifestava nella nuova società, dunque un dato di fatto, quasi sociologico ed economico, che il fascismo, grazie anche ad alcuni studiosi meritevoli, fece suo; per deformarlo, in un certo senso, quasi depotenziarlo, ma che per la prima volta assumeva una valenza a livello dell’ordinamento giuridico. Dicevo un’esigenza della società, che segnava il tramonto dello Stato borghese, che era costruito su due poli opposti, lo Stato regolatore e gli individui con le loro libertà. Ciò che veniva taciuto erano i fenomeni di aggregazione sociale, nel lavoro o nella produzione. Tutto ciò che non fosse riconducibile allo Stato ed al suo potere sovrano, ed all’individuo singolo ed alle sue libertà personali, non era tenuto in considerazione a livello ordinamentale. Eppure è dalla fine del secondo decennio del secolo scorso, che grazie agli studi di Santi Romano, ed al suo “L’ordinamento giuridico”, che la riflessione sulla pluralità degli ordinamenti, all’interno della società, cominciava a fare breccia nella dottrina giuridica italiana. Il riconoscimento della pluralità di fenomeni sociali, e delle possibili conseguenze nel mondo del diritto e della stessa teoria delle fonti legislative, fu in quegli anni al centro dello studio di molti giuristi. Il più convinto assertore delle conseguenze giuridiche di quanto avveniva nella società fu, niente di meno e tremate liberisti, il futuro gerarca Sergio Panunzio, che non poco influenzò la costruzione dello Stato corporativo. In effetti può apparire una contraddizione il pluralismo, sottostante all’idea corporativa, e l’autoritarismo, come cifra prima del regime fascista; eppure così fu. La legge del ’26, normativa di avvio del regime corporativo, prevedeva, infatti, il riconoscimento legale – sebbene con alcune limitazioni – delle associazioni, sindacali e datoriali, il riconoscimento della loro personalità giuridica, regolava i contratti collettivi come aventi effetto per tutti i datori di lavoro e lavoratori della categoria, il conseguente divieto di sciopero e serrata (se la cosa vi fa storcere il naso, in quanto simbolo dell’autoritarismo, vi rimando al mio pezzo sui sindacati del 3 maggiohttp://luciogiordano.wordpress.com/2013/05/03/cercasi-sindacato-disperatamente/), prevedeva l’istituzione della magistratura del lavoro. Una struttura legislativa che cercava di rappresentare una terza via tra capitalismo e socialismo, e che ben si riassumeva nelle parole di Mussolini del ’22“Chi dice lavoro, dice borghesia produttiva e classi lavoratrici delle città e dei campi. Non privilegi alla prima, non privilegi alle ultime ma tutela di tutti gli interessi che armonizzano con quelli della produzione e della nazione”. Queste le idee di partenza. E sebbene successivamente imbrigliate e contraffate dallo statalismo, soprattutto da parte del guardasigilli Alfredo Rocco; scolorite dall’autoritarismo che mal sopportava ogni idea di pluralismo; pur nella discrasia tra perseguito ed ottenuto, Gino Giugni, in riferimento al sindacalismo fascista, parlava di movimento senza alcun rapporto organico con la fabbrica ed il mondo della produzione; pur con tutti i difetti che in tale operazione possiamo vedere oggi, bisogna riconoscere che il sistema corporativo era il primo riconoscimento di quel fenomeno di pluralità sociale, soprattutto nel mondo dell’economia, che si otteneva in Italia. Se pensate che si tratti di vecchie idee giuridiche, confinate agli anni 20-30, basterà pensare che ancora oggi, nella dottrina lavoristica si dividono il campo le teorie se gli accordi nazionali siano contratti di diritto privato o abbiano il valore di fonti del diritto, una polemica degna di Panunzio e Orlando! Con queste brevi considerazioni sull’ordinamento corporativo – per una lettura approfondita e colta rimando al bellissimo testo del giudice costituzionale Paolo Grossi “Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1860-1950”, Giuffrè editore, da cui ho attinto moltissime delle nozioni rappresentate – e sull’importanza storico-giuridico-sociale dello stesso, si è voluto portare un primo esempio del perché non tutto ciò che è riconducibile al ventennio, o alla legislazione fascista, debba essere, a priori e ottusamente, tacciata di quei difetti che resero l’intero movimento una disgrazia per il nostro Paese. Nella varietà delle sue espressioni, seppur minoritarie e se volgiamo settarie, vi sono spunti culturali, giuridici, sociali, che meritano una considerazione, se non entusiastica, quantomeno non negativa. Un altro esempio di ciò, esempio che per taluni tratti ricorda proprio il corporativismo, è un vero e proprio movimento, che assimilato totalmente al fascismo, ne rappresenta sicuramente alcuni caratteri, ma va ben oltre, e merita a pieno titolo di essere inserito nella storia della cultura italiana, come uno dei momenti migliori: ci riferiamo al Futurismo. Bisogna riconoscere che il futurismo, a differenza di altri episodi legati al fascismo, ha già avuto una rivalutazione a livello culturale, almeno dagli anni ’60. E nella storia del movimento futurista possiamo trovare vicende non dissimili da quella che fu la storia del corporativismo, inteso come ammissione del pluralismo sociale. Il futurismo nasce e radica i propri caratteri ben prima del fascismo, tant’è che a voler cercare un rapporto di filiazione, seppur con tutti i limiti di tale operazione, possiamo dire che fu il fascismo a nascere dal futurismo, o almeno così la pensò sempre Marinetti. Esso fu, prima ancora che movimento artistico, un modo di vivere e di posizionarsi nella società tradizionale. Esso manifestò quella crisi sociale e di idee in un momento storico in cui tutto stava cambiando. Si ergeva, il Futurismo, come segno della rivolta contro il “passatismo”, termine che spessissimo si leggerà in Marinetti, come il nemico principale del suo movimento. Sebbene di estrazioni politiche diversissime – Boccioni e Severini marxisti, Carrà anarchico, Sant’Elia socialista – essi si trovarono uniti in alcune idee comuni, espresse nel celeberrimo manifesto futurista del 1909. Per rendersi conto di cosa fosse il nucleo politico del futurismo, si pensi all’appello-manifesto di Marinetti, “I nostri comuni nemici”, appello rivolto alla classe operaia, dove i nemici comuni erano ben individuati: clericalismo, affarismo, moralismo, accademismo, pedantismo, pacifismo, mediocrismo. Un serie di obiettivi da abbattere, in linea con quello che era, ai tempi, il sindacalismo rivoluzionario, con cui avevano, difatti, stretti contatti. Dal punto di vista artistico, questo legame è rappresentato, forse come emblema, dal favoloso capolavoro carrariano “I funerali dell’anarchico Galli”, ma anche da altre opere con evidenti riferimenti al mondo operaio (Balla, La giornata dell’operaio; Boccioni, Il lavoro). Dal punto di vista politico, il futurismo era una macchina contro ogni forma di passatismo ed idee antimoderne. Dai testi di quegli anni è possibile ricavare un quadro delle linee “politiche” del movimento: antisocialismo, visto come idea passatista, in quanto la stessa civiltà del lavoro era vista come antimoderna e grigia; simpatia per il sovversivismo di sinistra; l’antiparlamentarismo; l’antifemminismo, che nell’ottica futurista rappresentava l’opposto di ciò che si potrebbe pensare, ovvero l’idea di una donna del tutto assimilata all’uomo, con gli stessi diritti, libera dall’autorità del marito e garantita dall’istituto del divorzio; l’anticlericalismo. Queste alcune idee che confluirono nel manifesto del partito politico futurista. Manifesto portatore di idee sicuramente di ispirazione nazionalista e antipacifista, ma attente all’educazione del proletariato, finalizzate alla trasformazione del Parlamento, in cui avrebbero dovuto trovare posto industriali, agricoltori, ingegneri e commercianti, con la previsione di un Senato composto esclusivamente di giovani sotto i trent’anni, propugnatore della socializzazione delle terre, che caldeggiava un sistema tributario fondato su imposte dirette e progressive; ecc ecc. Una visione del tutto rivoluzionaria, quella che animava i futuristi, e che si incontrava con alcune delle idee critiche che agitavano il primo fascismo. Ed è proprio in questo incontro di voglie rivoluzionarie contro il sistema tardo-borghese, contro la classe politica pre e post bellica, che si salda il legame tra futurismo e fascismo. Ed a questa voglia autenticamente rivoluzionaria di Marinetti che Mussolini guardò sempre con simpatia, ma con occhio critico, e che gli fece dire, in pieno regime, che Marinetti fosse un “rivoluzionario in regime permanente effettivo”. Eppure il rapporto fu, in parte contrastato. Se i fasci di combattimento furono fondati, anche grazie all’azione dei futuristi, le incomprensioni e le divergenze, anche in quel primo periodo, non mancarono. Come il giudizio sull’impresa dannunziana; se per i futuristi era un’impresa “bella tra le belle”, Mussolini la guardò sempre attraverso le lenti del realismo politico. Ma il vero, temporaneo, allontanamento si ebbe nel 1920, dopo il II Congresso dei fasci di combattimento, dove pure Marinetti era stato eletto nel comitato centrale, poiché i futuristi erano stati sconfitti sulla pregiudiziale antimonarchica ed anticlericale. Ed il successivo riavvicinamento vi fu solo nel ’23, sebbene durante la marcia su Roma, Mussolini alla sede del Popolo d’Italia, avesse al suo fianco, nell’attesa, proprio Marinetti. Ed una volta che Mussolini prese il potere, molte furono le congratulazioni dei futuristi. L’idea di Marinetti, a quel punto, era che il futurismo, proprio per i caratteri di contiguità col fascismo, potesse diventare la vera e propria arte di Stato. Sogno di Marinetti che non ebbe mai una realizzazione, e che portò ad un allontanamento dalla politica sempre maggiore dei futuristi. Ma è sul terreno artistico, che un successo “clamoroso” lo ebbero, riuscendo a non far passare in Italia le idee anti-avanguardie e contro l’arte degenerata, che invece comportarono in Germania la marginalizzazione di movimenti artistici come l’espressionismo o il simbolismo. Marinetti fu fedele alleato di Mussolini fino alla fine, sessantenne volle partecipare alla seconda guerra mondiale, fino alla partecipazione alla repubblica di Salò, ma ciò non toglie le profonde divergenze concettuali tra i due movimenti. La firma dei Patti Lateranensi, il Patto d’acciaio, e leggi razziali, furono terreno di scontro, ed anche di fastidio per il Duce, che una voltò sbottò “Marinetti la pianti di credere che il regime voglia lo sterminio degli ebrei. Si tenga i suoi amici, i suoi discepoli ebrei. Nessuno li disturberà mai”. Dissensi che segnano l’idea di ciò che, secondo Marinetti, avrebbe potuto essere il fascismo, e che invece non fu mai, un movimento modernista e rivoluzionario, che invece si chiuse, una volta al potere, nel conservatorismo autoritario che lo ha caratterizzato. Anche queste poche righe – per approfondimenti invito a leggere il testo di Francesco Perfetti “Futurismo e fascismo, una lunga storia”, in Futurismo 1909-1944, catalogo Mazzotta della mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma, luglio-ottobre 2001 – danno il senso di come non tutto ciò che può essere riportato al fascismo debba essere visto come fenomeno inaccettabile. Sarebbe, invece, interessante studiare il perché, oggi, in Italia non si possa proporre una riflessione serena su aspetti, e ribadiamo aspetti, che si formarono durante il regime. Ma questo sarà oggetto di un altro intervento.