C’È STATO UN MOMENTO CHE QUESTO PAESE HA VOLTATO LE SPALLE A SE STESSO

C’È STATO UN MOMENTO CHE QUESTO PAESE HA VOLTATO LE SPALLE A SE STESSO

C’è stato, perché c’è stato, un momento in cui questo paese ha voltato le spalle a se stesso. Lo ha fatto per superficialità e ingenuità, soprattutto. Non per calcolo cinico. Lo ha fatto perché non è stato in grado di guardare davvero alle cose. Quel momento non riesco a isolarlo in una maniera nitida. Grosso modo tra il 1964 e il 1967. Quindi tanto tempo fa. Lì si è capovolto il paese. Abbiamo smesso di essere innovativi. Abbiamo rinunciato a un ruolo intellettuale, abbiamo abdicato a diventare classe dirigente. Sono passati più di cinquant’anni da allora. Troppi. E sono accadute molte cose: la contestazione del 68, che ebbe conseguenze di tipo reazionario anche quando era in buona fede. Il terrorismo degli anni Settanta e la strategia della tensione, la demolizione dell’apparato scolastico e universitario, eliminando il merito attraverso un calcolo cinico e opportunista. Il disimpegno degli anni Ottanta che ha nascosto tutto sotto il tappeto, la crisi identitaria del decennio successivo che era solo un modo per non assumersi le responsabilità, o leggerle solo in chiave giudiziaria. Dopo è arrivata la paralisi del pensiero. Questi vent’anni di paralisi culturale, linguistica, intellettuale. Siamo finiti in un brutto film, in una sceneggiatura senza idee. E man mano che si andava avanti non si riusciva a capire che la malattia era nel linguaggio, che la malattia veniva da una semplificazione ridicola del presente e delle cose. Italo Calvino scriveva: «L’italiano sta diventando una lingua sempre più astratta, artificiale, ambigua: le cose più semplici non vengono mai dette direttamente, i sostantivi concreti vengono usati sempre più raramente. Questa epidemia ha colpito per primi i politici, i burocrati, gli intellettuali, poi si è generalizzata con l’estendersi a masse sempre più larghe d’una coscienza politica e intellettuale». L’impoverimento della parola ha polverizzato tutto. La lente ideologica – che è una lente che semplifica, che elimina i distinguo, i dettagli delle cose – è sopravvissuta e ha trionfato in questo tempo postideologico. E oggi appare chiara in tutta la sua inutilità: soprattutto nella cronaca di questa crisi di governo, nelle parole della politica, in questo tempo di parole impoverite che si fingono complesse, che si vogliono diverse. Ci si chiede: che governo sarà quello che dovrà giurare domani mattina? Ma non è questa la domanda. Io mi chiedo, invece: che lingua si parlerà nei prossimi anni. Quali parole avremo la possibilità di ascoltare e pronunciare? Si dirà che nel futuro ci vorrà chiarezza. Ma non è questo. Ci vorrà complessità, visione, e persino silenzio. Ci vorranno parole che non siano ambigue. Si dovranno dimenticare le pagine di luoghi comuni che stanno seppellendo tutti. Sarà possibile? Sarà possibile recuperare questi 50 anni persi? E attraverso quali strumenti? Attraverso quale consapevolezza?