DOV’ERO QUANDO ALDO MORO E’ STATO RAPITO: IL RICORDO

La mattina del 16 marzo del 1978, quando le Brigate Rosse fecero strage in via Fani e si portarono via il leader della Dc, ero nella piccola casa da studente universitario, in via Bogino a Torino, che occupavo con un compagno. Lui era andato a lezione, io sentivo la radio. E quando dissero che cos’era successo ebbi una sensazione fortissima di disastro imminente, anzi inevitabile. Come se l’Italia intera stesse per crollare, accartocciandosi su se stessa. Si parlava di “attacco al cuore dello Stato” ed era proprio ciò che stava succedendo. E poi contava molto la situazione specifica. Pochi mesi prima del rapimento di Aldo Moro, a pochi passi da dove abitavo io, uno studente fu bruciato vivo nel bar “Angelo Azzurro”, investito dalle fiamme di una molotov. Io ero arrivato dalla provincia, pieno di curiosità e aspettative, per fare l’Università proprio nel 1976. E invece che in una grande città colma di occasioni mi ero ritrovato in un truce coacervo di asfalto e cemento che alle sette di sera si svuotava dei passanti e delle luci. Un luogo dove la violenza si respirava: il giorno in cui diedi il primo esame a Palazzo Nuovo (Storia del populismo russo con il grande studioso e docente Franco Venturi, presi 27), nel grande atrio scoppiò una vera battaglia a pietre e bastoni tra autonomi e servizio d’ordine del Pci. E qualche giorno dopo, gli autonomi affissero belle bacheche dell’Università le foto dei ragazzi del Pci con indirizzo e numero di telefono, con l’invito ad andarli a “punire”. Questo era il clima, insomma. E su questo clima, e sul mio spirito, la vicenda di Moro cadde come un meteorite. Passato lo stupore del primo annuncio, decisi di uscire. In un angolo di piazza San Carlo, poco distante, c’era un’edicola. Era appena uscita l’edizione del pomeriggio della Stampa,Stampa Sera, che poi cesserà le pubblicazioni nel 1992. Ma a metà degli anni Settanta era una testata importante, e non solo in città. Naturalmente aveva dedicato un’edizione speciale al rapimento, che mi buttai a leggere mentre tornavo indietro. Solo una volta arrivato a casa mi accorsi, da un riquadro, che l’editore annunciava altre ribattiture man mano che fossero arrivate ulteriori notizie. Così, dopo un po’, ripresi la via della piazza e dell’edicola. E da lì non mi mossi più per il resto del pomeriggio. A Torino era una giornata assai fresca per non dire fredda, e a un certo punto si mise pure a piovere. Stavo appollaiato su una transenna e quando il tempo peggiorava mi riparavo sotto i portici, aspettando l’arrivo dei pacchi di giornali. Poi mi fiondavo a comprareStampa Sera, che in effetti fece un grande lavoro uscendo almeno tre volte quel pomeriggio, la leggevo, la rileggevo, e mi rimettevo ad attendere un altro invio. Anche lì: non ero l’unico. C’erano altri che vedevo gironzolare lì intorno e poi affacciarsi all’edicola. E altri ancora, forse più esperti o magari impiegati nei negozi e negli uffici della zona, che ricomparivano più o meno in coincidenza con l’arrivo dei giornali. Era, mi rendo conto, un rito anti-ansia. Sembrava che stare lì contribuisse a tenere in piedi l’Italia, a sventare la catastrofe, a respingere il nemico, chiunque egli fosse. Naturalmente fin dalle prime ore fiorirono le ipotesi, si accavallarono le dichiarazioni, cominciarono a circolare le storie non solo dello statista rapito ma anche dei poliziotti e dei carabinieri trucidati per poterlo rapire. Ma di quel che sentivo o leggevo allora non saprei riportare nulla. Non era quello il punto. Il punto era resistere, per quanto ingenuo e buffo paia quel proposito mezzo secolo dopo. Ce la feci fino a sera. Poi tornai a casa, infreddolito, sconcertato e impaurito. Erano cominciati, per me e per tutti gli italiani, i 55 giorni e gli ultimi cinquant’anni.