DUE RAGAZZI NAPOLETANI LANCIANO VIDEOGAME SUL CORONAVIRUS

Folli, affamati e sconvolti. Mirko Scarici, ventiquattrenne di Pianura, e Alfonso Prota, 23 anni, di Quarto, non avrebbero mai immaginato, neanche in sogno (e in questa storia la componente onirica ha un suo perché) che un giorno il loro nome di diplomati qualunque al tecnico-informatico “Giordani Striano” sarebbe stato affiancato a quello del fondatore di Apple. Ma ancor più c’è da restare sconcertati perché attraverso la realtà virtuale, in tempi né sospetti né contagiati, hanno anticipato senza volerlo la realtà fattuale di questi giorni. Parlando di virus, epidemia e paziente-zero quando tutti ignoravano persino l’esistenza in Cina di una città chiamata Wuhan. Una versione «estremizzata» del Covid-19, o di qualcosa che ci assomiglia molto, è diventata così un videogioco, che dopo quattro anni di lavorazione, vedrà la luce il 30 aprile in versione digitale, al prezzo di 20 euro. Si chiama Follia Dear Father, un horror psicologico, ed è il debutto nel mondo dei videogame di Steve Jobs Inc., la società dei fratelli Vincenzo e Giacomo Barbato (altri due affamati, folli e sconvolti), divenuti noti in tutto il mondo per aver vinto la causa impossibile contro gli avvocati di Apple e aver potuto registrare così con sfrontata ammirazione il marchio Steve Jobs. «Alfonso ed io siamo stati compagni di scuola — esordisce Mirko — abbiamo frequentato il triennio di tecnico-informatico assieme e ci lega una grande amicizia. Un giorno gli raccontai che la sera prima avevo avuto un incubo, un incubo horror, un’epidemia all’interno di un’università, e a mano a mano che glielo raccontavo riscontravo in lui un certo interesse. Ad un certo punto ci guardammo negli occhi: sembrava la trama di un videogioco. E ci chiedemmo: abbiamo la capacità di svilupparlo così?» Detto fatto, per concretizzare il progetto si dividono i ruoli: Mirko si occupa di sceneggiatura, ambientazione, concept di gioco, Alfonso di programmazione, animazione e sonoro. Non c’è bisogno di nessun altro, per un’opera che di solito comporta l’impiego di decine di persone, loro due, autodidatti ma entusiasti, bastano e avanzano. «Comunque la nostra forza è che siamo interscambiabili, ognuno ha nozioni del settore in cui è bravo l’altro», interviene Alfonso. La svolta avviene il giorno in cui i due giovani visionari s’imbattono in un annuncio dei fratelli Barbato, nel frattempo assurti agli onori della cronaca proprio per il contenzioso vinto con Apple, che cercano giovani talenti da coltivare. « Non ci abbiamo pensato due volte, era la nostra grande occasione — riprende Mirko – e ci presentiamo un po’ sfacciati con un foglio a quadretti con la lista delle cose di cui avevamo bisogno per sviluppare la nostra idea». La loro intraprendenza piace subito: nasce così la società Real Game Machine che ha lo scopo di produrre il gioco. Tutto procede per il verso giusto fino a gennaio quando dalla Cina cominciano ad arrivare notizie allarmanti che sconvolgono Mirko ed Alfonso. La realtà assomiglia troppo alla loro fantasia che a questo punto assume connotati quasi premonitori. «Nel nostro gioco tutto parte da un esperimento andato male in un laboratorio di ricerca che si tramuta in un virus letale trasmissibile per via aerea — racconta Mirko – un concept che sembra mutuato direttamente da quanto si presume possa essere accaduto in Cina». Ma non solo. «Protagonista — aggiunge Alfonso — è Marcus Pitt, un’adolescente come tanti, che una sera riceve una e-mail proveniente dall’università nella quale lavorano i suoi genitori, la “Frederick Fidelity University” (celato riferimento alla Federico II, ndr ). Il contenuto risulta allarmante, qualcosa di grave è accaduto all’interno della struttura, e i suoi genitori sono proprio là dentro. Il giovane dovrà vedersela con oscure presenze, mascherine antivirus e il paziente 0, il tutto tra tanti colpi di scena e con una vena di complottismo». Come andrà a finire? Qui diventano meno loquaci. Anche perché sono già al lavoro per la scrittura del secondo capitolo. «Il finale è molto aperto, tutto da interpretare», dicono all’unisono. Proprio come nel Coronavirus …