IL GIORNO IN CUI APPESI GLI SCARPINI AL CHIODO

IL GIORNO IN CUI APPESI GLI SCARPINI AL CHIODO

“Passami la palla” dicevo, urlavo a Luigi…ma ormai lo scatto non era più quello di un tempo. Correvo, correvo…ma il campo mi sembrava sempre più grande, immenso, quasi irraggiungibile. E pensare che una volta avrei corso cento metri senza fatica. Quante volte, partendo dalla difesa avevo rilanciato l’attacco con falcate poderose a superare il centrocampo. Ora invece tutto mi diventava difficile, faticoso…e anche rintanato nella mia zona di difesa, riuscivo a malapena a trattenere il furore agonistico di attaccanti ben più giovani di me. C’era soprattutto un ragazzino diciannovenne, un “furetto” che ogni volta che incontravo sul campo mi faceva diventare matto. Impossibile fermarlo per quanto era disinvolto, velocissimo con una tecnica da autentico campione. Mi mancava il fiato al solo pensare di doverlo affrontare. Alla fine, il più delle volte non avevo scelta e non mi restava altro da fare che “falciarlo” appena lo incontravo, da qui il mio soprannome di “Killer”. Ne avevo già mandati all’ospedale un paio prima di lui, ma con lui era davvero un’impresa riuscire anche solo a toccarlo. Quel giorno pioveva a dirotto, il terreno era melmoso e si scivolava di continuo. Il “furetto” però riusciva lo stesso ad interpretare il suo ruolo di protagonista assoluto e grazie a due sue prodezze eravamo sotto di due reti. Restava poco meno di mezz’ora alla fine della partita, le nostre facce erano sporche di fango ed eravamo bagnati come pinguini, però eravamo ben più che semplici giocatori in campo. Quella era una partita vera, l’incontro con la squadra più forte e lottare fino in fondo andava ben oltre il nostro impegno agonistico. Ci consideravamo guerrieri all’attacco della miglior formazione calcistica dell’epoca e non potevamo sfigurare e a costo di sputare l’anima, dovevamo fare vedere che avevamo gli attributi e che mai e poi mai ci saremmo arresi senza dare il massimo di noi stessi. A cinque minuti dalla fine, giunse la grande occasione, la mia, e non me la lasciai sfuggire. Il solito “furetto” sfondò sulla fascia sinistra, tentai di “segarlo”, ma mi lasciò sul posto come un somaro con una delle sue abili finte. Ma fu in quel momento che accadde il miracolo. Tentando di svirgolare verso il centro dell’area, scivolò e il pallone si ritrovò improvvisamente vicino a me. L’”accarezzai”, lo presi con dolcezza, mentre davanti a me si profilava un “corridoio” completamente libero dato che la squadra avversaria era del tutto sbilanciata in attacco. Era il momento giusto, presi tutta l’aria che avevo nei polmoni e scattai…erano meno di cento metri…ce la potevo fare. Partii con decisione, non dovevo,  non potevo fermarmi…restavano pochi minuti al fischio finale. Saltai miracolosamente un avversario che aveva provato a fermarmi, superai la linea del centrocampo…il cuore mi scoppiava…la vista non era delle migliori, ma ormai ero prossimo all’obiettivo. Il portiere uscì disperatamente verso di me, lo scansai con fatica e prima di cadere rovinosamente a terra, tirai un “missile” in diagonale verso la porta. Persi i sensi per alcuni secondi, lo sforzo era stato sovrumano, sentivo delle voci lontane…poi riaprii gli occhi e vidi i volti radiosi dei miei compagni di squadra. Mi abbracciarono tutti, alcuni con le lacrime agli occhi, perché segnare quel gol avera rappresentato una vittoria per tutti noi e poco importa poi se quella partita fu persa. Quando l’arbitro fischiò la fine delle ostilità, il “furetto” si avvicinò a me e mi abbracciò regalandomi la sua maglia e dicendomi: “Peccato che sei più vecchio di me, perché se fossimo stati coetanei, con te non avrei mai avuto scampo! Non sei grande, sei grandissimo!” Al gigante (nel senso della stazza) che ero, vennero allora le lacrime agli occhi dall’emozione e da allora non smisi più di seguire le prodezze di quel ragazzino. Da lì a poco appesi le scarpe al chiodo, ma quella partita rimane la più bella che abbia mai disputato in carriera, sia per quella rete bellissima (che fece storia) sia per il duello epico che ebbi con un autentico fuoriclasse di cui riconoscevo l’indiscussa classe e superiorità e che quel giorno dimostrò di essere uomo.