CRONACHE DAL FRONTE (PUNTATA N. 50)

Fra gli scaffali della mia libreria ce n’è uno che per me ha il fascino di uno scrigno magico. Perché custodisce tutte le carte geografiche, le mappe e le guide di viaggio che ho via via accumulato in tutti questi anni passati in giro per il mondo. Sono lì che sporgono un po’ alla rinfusa, accatastate malamente l’una sull’altra senza alcun criterio, sedimentate solo dal tempo. Ne posso scorgere dalla mia scrivania le pagine a volte ingiallite, le increspature che ormai le gonfiano e i bordi sbrindellati, anche le macchie di caffè che non ho mai voluto pulire. Mi capita ogni tanto di dare una sbirciatina nello scaffale, per provare a mettere a posto o perché qualcosa è franato, finendo a terra. E faccio sempre delle scoperte inattese. Ho sempre avuto una passione per le carte geografiche. Perché sono la promessa di un entusiasmo a venire. Avrei voluto avere l’abilità di un cartografo, sapermi districare fra le curve di livello e il sistema del tratteggio, ma mi sono dovuto accontentare di molto meno: godere dei punti cardinali, delle reti stradali e delle scale metriche, riuscire a capire la direzione da prendere. Per ogni mio viaggio ho avuto nello zaino una cartina geografica e spesso una guida – le Lonely Planet oppure quelle del Routard – e sul posto mi fermavo a comprarne delle altre, ogni volta che potevo. Ho accumulato con la stessa voracità anche le mappe che si danno negli alberghi o negli uffici turistici, le piantine della metro, i dépliant dei siti archeologici. Qualsiasi cosa potesse servire a familiarizzarmi con un posto e ad aumentarne la mia conoscenza la prendevo e me la tenevo a portata di mano. Qualcuno potrebbe obiettare che ormai c’è Google Maps che ti dice sempre dove sei e come andare in un determinato posto, che grazie alla Rete puoi avere sul tuo smart phone tutte le informazioni di cui necessiti per qualsiasi viaggio, e che non serve affatto portarsi dietro tutta questa carta nello zaino. E’ vero, per carità. Ma per me che non sono un nativo digitale il fascino del cartaceo resta immenso e niente potrà mai rimpiazzarlo. E poi le informazioni che la tecnologia digitale ti offre se ne vanno in fretta dopo l’uso. Come l’acqua che ti scivola addosso a fine doccia. D’altra parte sono immateriali. Mentre il cartaceo ha una sua consistenza fisica che si impone. Così ieri ho trovato nel mucchio e dispiegato sulla mia scrivania una vecchia cartina russa dell’Afghanistan – devo averla comprata assieme a Luigi Baldelli in un bazar di Jabal Seraj – e ho rifatto con la mente il viaggio che subito dopo l’11 settembre mi ha portato dalla capitale tagika, Dushambé, fino alle porte di Kabul, nella valle del Panshir. Quello fu un viaggio scomodo ma molto avventuroso. C’era da arrampicarsi sull’Hindukush, con le sue cime brulle che toccano i 5mila metri e le sue piste in pietra che mettono a dura prova il fondo schiena. E lì, su quella cartina a colori un po’ imbalsamata dal tempo – e forse dall’acqua che dev’esserci caduta sopra – ho visto il percorso segnato a penna, con degli appunti sopra che non sono riuscito a decifrare. Ho ritrovato anche una graziosa piccola guida di Algeri, marcata 1993. Erano gli anni della guerra al terrorismo del GIA e in città c’erano dei quartieri – ad esempio Bab el Oued o la Casbah – dove i giornalisti erano visti come il fumo nell’occhio. Sulla mia guida ci sono segnate le strade e le piazze dove tirar fuori la telecamera sarebbe stato un azzardo. Ed io, che ero da solo, senza un cameraman, ero costretto ad andarmene in giro con una busta di plastica in mano – quelle della spesa – in cui avevo praticato un buco da dove fuoriusciva l’ottica della mia telecamera. Altri tempi. La vera sorpresa però, ieri, è stata trovare nel mio scaffale un dépliant dell’Hotel Hadda di Sana’a, in Yemen. Ed io in Yemen non ci sono mai stato. Ne sono certo. Eppure quel dépliant mi pare vissuto – non mi è certo arrivato per posta – e non capisco proprio come possa essere finito nelle mie mani. Sul frontespizio c’è inoltre scritto a penna, con una calligrafia che non è la mia: “en dehors “, che in francese vuol dire “fuori”. Chissà, magari è servito per un appuntamento galante. Ma dove? Certo non in Yemen. E’ un mistero. Un mistero che mi piace e su cui continuerò a fantasticare. P.S. In foto il dépliant dell’Hotel Hadda di Sana’a. In alto, nella pagina di sinistra, la scritta a a mano