IL GRADUALE RITORNO ALLA NORMALITÀ NEGLI OSPEDALI DOPO L’ONDA CATTIVA DEL COVID-19

Il cardiologo torna cardiologo, il dietista torna dietista. Negli ospedali è in atto la contro-rivoluzione. Molti reparti vengono riportati alle originarie funzioni. E centinaia di medici che per due mesi hanno combattuto al fronte ‘covid’ riprendono a svolgere la loro professione.La liberazione parte dai vestiti: «Via il tutone bianco, i calzari, la cuffia, le mascherine strette sul viso, gli occhiali sopra ai miei occhiali, la visiera». Scudi inseparabili di un tempo sospeso e battagliero: «Il disagio fisico, i turni infiniti, la stanchezza insopportabile. Ma ora siamo di nuovo a casa», dice Licia Melis, 41 anni, anestesista in Humanitas. Da ieri il suo reparto, ripulito, ha ricominciato a funzionare con l’attività di elezione. «Non dimenticherò mai gli occhi dei pazienti che chiedevano aiuto. Alla mia famiglia che sta in Puglia non smetto di ripetere di stare il più possibile a casa. Il virus non è debellato». Sorride Andrea Menozi, 41 anni. Lo aspetta un momento bellissimo. Il 14 febbraio gli era nata la prima figlia, poco dopo la sua «tranquilla» chirurgia plastica del Fatebenefratelli è diventata pronto soccorso covid. Da quel giorno ha evitato la compagna e la piccola, per ridurre rischi di contagio. Ma lunedì torna a fare il chirurgo plastico e ha appena avuto l’esito del test: negativo. «Come sarà cresciuta, in due mesi, Emma. Ha vissuto più giorni lontana che con me al fianco». Il suo personale incubo, una notte di metà marzo. «In pronto soccorso c’erano più di 50 pazienti in crisi respiratoria, dovevamo trovare bombole d’ossigeno per tutti». Lo sguardo si fa assente. È un trauma da superare persino per i medici. Scuote la testa Olivia Milani, 47 anni, internista al Policlinico: «Non era mai successo prima, siamo stati calati in una sorta di triage da guerra. Dovevamo scegliere a quali pazienti potevamo offrire certe cure. Qualcuno non ha retto psicologicamente, ha preferito licenziarsi piuttosto che continuare. Non si sentiva pronto, ma in fondo chi lo era?». Suo marito è direttore del pronto soccorso, hanno una figlia di sei anni: «Adesso riaprire è una necessità, ma l’ondata non deve tornare». Si fanno forza, ma sono realisti: «Ci siamo trovati d’improvviso pieni di incertezze cliniche di fronte ad un virus sconosciuto – realizza Calogero Malfitano, 35 anni, fisiatra alla unità di neuro riabilitazione dell’Auxologico diventato covid -. Mi terrorizzava l’idea di essere vettore della malattia. Ho vissuto in totale solitudine casalinga, non vedo l’ora di riabbracciare la mia compagna». Claudia Galmozzi, 45 anni, in forze ad un ambulatorio privato, si è offerta di aiutare al San Gerardo di Monza: «I turni infiniti con la tragedia davanti senza poter bere, andare in bagno, sorridere, soffiarti il naso. Ma sono contenta di averlo fatto, le mie figlie sono orgogliose». Luca Bernardo, 52 anni, primario di pediatria al Fatebenefratelli, ha appena dimesso l’ultima paziente dal «Covid help». Una nonna di 94 anni, guarita. «I pazienti si ritrovavano soli, senza la fiducia di potercela fare. Noi cercavamo di fare arrivare le carezze anche con i guanti – dice -. Finivamo le giornate stravolti, tra lacrime e emozione. Ma il vento fa il suo giro, stiamo finalmente respirando»