UN CAPITOLO DEL GOVERNO DELL’EMILIA ROSSA SU CUI RIFLETTERE

UN CAPITOLO DEL GOVERNO DELL’EMILIA ROSSA SU CUI RIFLETTERE

DI LANFRANCO TURCIEutrofizzazione dell’Adriatico : un’esperienza di governoEntrato in Regione fin dalla sua istituzione nel luglio del ’70, fui prima presidente della Commissione per lo Statuto regionale, poi assessore alla sanità e successivamente anche all’ambiente dal 1972 al 1977. Nel ’77, l’anno tremendo della uccisione dello studente Lorusso e della manifestazione degli autonomi con le P38 in piazza 8 Agosto a Bologna, fui nominato capogruppo del Pci in Consiglio Regionale. Nel gennaio del ’78, dopo la morte improvvisa del Presidente Sergio Cavina, fui eletto Presidente della Regione, ruolo che ricoprii fino a metà dell’87. All’ambiente si succedettero prima l’assessore Giancarlo Boiocchi, poi l’assessore Giuseppe Chicchi con cui facemmo le cose più importanti in materia di eutrofizzazione, infine l’assessore Giuseppe Gavioli, il cui impegno principale fu diretto alla difesa del suolo e al governo delle acque, soprattutto dopo l’approvazione della legge nazionale per la difesa del suolo di cui Gavioli può a ragione essere definito il principale promotore.Quello delle alghe o, come abbiamo cominciato a definirlo ben presto, il problema dell’eutrofizzazione dell’Adriatico, è stato dunque un tema continuo e centrale del mio impegno regionale dal 1975 all’uscita dalla Regione. Fu a fine estate del ’75 che fummo investiti dall’allarme e dal vero e proprio panico che dalla Romagna arrivò improvviso sui tavoli regionali. Ero assessore alla sanità dal 1972 e all’inizio della seconda legislatura regionale avevo assunto anche le deleghe per l’ambiente. La Regione era ancora una struttura gracile, con competenze molto parziali e limitate, costituita da alcuni uffici periferici trasferiti dallo Stato e da pochi funzionari chiamati dagli Enti Locali o assunti fra giovani laureati molto motivati politicamente, ma di scarsa esperienza amministrativa. Il nostro punto di forza era la grande sintonia con i Comuni e le Provincie, basata sulle comuni maggioranze di sinistra (PCI-PSI) e sulla carica di fiducia e di protagonismo che la istituzione della Regione aveva alimentato a tutti i livelli della società regionale. Per limitarmi all’area sociosanitaria che nella prima legislatura regionale condividevo con l’assessore Ione Bartoli (servizi sociali) e l’assessore Mauro La Forgia (ambiente), in quei primissimi anni avevamo messo in moto un profondo rinnovamento culturale, prima ancora che organizzativo, delle politiche sociali e sanitarie. La centralità delle persone nel sociale in contrasto con le politiche istituzionalizzanti*, e i servizi di prevenzione nella medicina materno-infantile e in quella del lavoro erano gli indirizzi principali. Ricordo come particolarmente significativo l’avvio del risanamento della zona delle ceramiche fra Modena e Reggio in stretta collaborazione con i sindacati e gli Enti Locali. Era una delle aree più inquinate della regione. I lavoratori si ammalavano di silicosi, ma le polveri e i fumi delle ceramiche erano un pericolo per tutta la popolazione e le ritrovavamo nel lambrusco come nelle carni degli allevamenti. Quell’esperienza diede il via a tutto il capitolo della medicina del lavoro che si estese a macchia d’olio per la sensibilità e la forza del movimento dei lavoratori nei primi anni ’70, ma anche per la disponibilità di medici e ricercatori che trovavano finalmente lo spazio in cui sviluppare un ambito di ricerca e pratica medica fino a quel momento negletta. Da quelle prime esperienze prese l’avvio il potenziamento del Centro di ricerche sul cancro di Bentivoglio guidato dal prof. Cesare Maltoni, che divenne punto di coagulo internazionale di scienziati dedicati alla ricerca dei fattori cancerogeni e che dedicammo a Bernardino Ramazzini, medico carpigiano del ‘600, fondatore della moderna medicina del lavoro. Nel frattempo sotto l’impulso della Regione che approvò una apposita legge, in tutto il territorio regionale erano sorti i consorzi socio-sanitari, anticipando quelle che con la riforma sanitaria sarebbero diventate le Unita Sanitarie Locali. In quei consorzi unificammo le competenze sanitarie degli Enti Locali e quelle derivate dagli ex uffici dei Medici e dei Veterinari provinciali, mentre si cominciavano a potenziare i vecchi Laboratori provinciali di igiene e profilassi destinati ad assumere un ruolo più significativo nelle politiche ambientali. Rimini ed altri centri romagnoli avevano già negli anni precedenti realizzato i primi depuratori delle acque civili, primi in Italia, ben consapevoli del nesso fra difesa dell’ambiente e valorizzazione della loro vocazione turistica, che ne stava già facendo il principale bacino turistico d’Europa.Nonostante questo buon avvio, all’inizio della seconda legislatura il capitolo alghe dell’Adriatico ci esplose addosso in modo virulento. Qualche manifestazione di acque colorate e di moria di pesci e di molluschi c’era già stata negli anni precedenti, ma nel mio ricordo, quel capitolo, come nuovo e centrale capitolo della politica regionale, si aprì in quell’estate. Ricordo le riunioni concitate con gli amministratori locali. Per tutti voglio citare e rendere omaggio a Ivo Ricci Maccarini, assessore provinciale di Ravenna, che fu in quegli anni animatore instancabile e appassionato della battaglia per l’Adriatico. E unisco nell’omaggio ai primi pionieri di questa grande battaglia il dott. Aldo Sacchetti, medico provinciale passato dai ranghi dello Stato a quelli della Regione nel 72. Sacchetti fu una figura di funzionario impeccabile, scrupoloso, di grande cultura e passione civile di cui ci ha lasciato testimonianza nei suoi libri dedicati all’ecologia. Fu con lui che allestimmo i primi tavoli di emergenza per esaminare il fenomeno algale, cercare nelle università, prima di tutte quella di Bologna, le competenze necessarie e poi via via allargare la ricerca di contributi a scala nazionale e internazionale. In altre parti di questo volume sono illustrati i contributi che ci arrivarono negli anni successivi da scienziati quali il Prof. Marchetti o il Prof. Vollenweider, che ci portò il frutto della esperienza fatta sui Grandi Laghi americani. Ma noi nel settembre del ’75 non sapevamo un accidente del perchè ci fosse quel mare colorato e del perché morissero pesci e molluschi, appestando l’aria e facendo fuggire i turisti. Intanto la Romagna ribolliva di riunioni e assemblee allarmate di bagnini, operatori turistici, pescatori e sindacati. Riunioni preoccupate e calde di voci e di toni, ma sempre esenti dai sentimenti di contrapposizione antipolitica o di quel qualunquismo facile contro le istituzioni e i loro rappresentanti che oggi invece sono di norma e accompagnano ogni manifestazione di protesta. Questo avveniva perché in quegli anni, pur non facili sotto tanti punti di vista, era ancora saldo, soprattutto in una regione come la nostra, il rapporto fra cittadini e istituzioni. E poi per quella dote particolare dei romagnoli, a volte irruenti e fin troppo diretti, ma sempre ricchi di passione, di generosità, di impegno e di tenacia. In tutti gli anni in cui ho seguito i temi dell’eutrofizzazione posso affermare che non avemmo mai contro di noi le categorie più interessate, che invece ci sostennero con la loro pressione politica e anche con la loro collaborazione fattiva, e spesso creativa, nel monitoraggio delle acque, nella raccolta dei campioni e in tutte le altre necessità che man mano individuavamo. Affiancando così il lavoro degli Enti Locali, del Centro Universitario di Cesenatico, delle Capitanerie di porto, dei Carabinieri e delle Guardie di Finanza. Lo stesso era avvenuto due anni prima con la collaborazione delle marinerie di Goro e di Comacchio e di quelle romagnole in occasione del blocco della pesca imposto dall’epidemia di colera del 1973. Comunque il 1° ottobre del 1975 potevo presentare una prima informazione al Consiglio Regionale in cui si dava conto del fenomeno in termini di eccezionale fioritura algale comportante l’anossia delle acque marine e la conseguente moria di pesci e molluschi. Si escludeva la presenza di alghe tossiche (anche se questa eventualità ci ha inseguito per anni come un incubo ricorrente), si annunciava l’avvenuta costituzione di una commissione di studio coordinata dai Prof. Romano Viviani, preside della Facoltà di veterinaria di Bologna e dal Prof. P. Luigi Bisbini della cattedra di Igiene della stessa università e la decisione di allestire una imbarcazione attrezzata per alimentare una ricerca approfondita e costante dei fenomeni fisico-chimici e biologici del nostro mare. Insomma come sintetizzò un consigliere nel dibattito successivo potevamo annunciare che ciò che stava succedendo non era il frutto di inquinamento nel “senso comune del termine”, quanto del fatto che stavamo “concimando troppo il mare”. Naturalmente nella mia relazione si annunciava l’impegno ad approfondire le cause del fenomeno in termini scientifici e nella loro dimensione locale e padana. Ricordavamo infatti che “in questo mare perviene circa un terzo di tutti gli afflussi del Mediterraneo, e sulla parte Nord-occidentale gravita un bacino continentale che raccoglie il 42,15% della popolazione e il 63,49% della produzione industriale nazionale”. In conclusione sollecitavo l’approvazione della legge Merli che avrebbe finalmente visto la luce pochi mesi dopo, ma avrebbe vissuto una infanzia davvero tormentata, con scarsi finanziamenti e minacciata più volte di un vero e proprio infanticidio. Nelle successive relazioni al Consiglio regionale dell’ottobre ’76 e dell’aprile ’77 si dava conto delle misure man mano adottate, soprattutto con la concentrazione delle scarse finanze regionali sulle politiche ambientali, e degli avanzamenti nel campo della ricerca. Di decisiva importanza si rivelò il seminario internazionale che organizzammo a Bologna nel febbraio del ’77, cui parteciparono 18 scienziati stranieri provenienti da Stati Uniti, Canada, Giappone, Jugoslavia, Olanda e Svezia; 56 scienziati italiani in rappresentanza di 15 Università, del Cnr, dell’Euratom, dell’Istituto Superiore della Sanità e dell’Enel; nonché 30 esperti in rappresentanza delle principali industrie interessate. Il fosforo venne indicato come il principale responsabile dell’eutrofizzazione del nostro tratto di mare. Da qui la immediata ricaduta sul capitolo detersivi come fattore prioritario da investire per ottenere una rapida riduzione dei fosfati nelle acque. Contemporaneamente si cominciò a mettere sotto tiro altre importanti fonti eutrofizzanti, quali le distillerie e gli zuccherifici particolarmente diffusi nel retroterra romagnolo, gli allevamenti suinicoli e l’uso irrazionale di concimi chimici e di fitofarmaci in agricoltura. Già nel ’76 adottammo misure severe per estendere la legge Merli anche a questo tipo di industrie e agli allevamenti che non erano normati nella legge perché classificati come attività agricole. Mi ricordo il mantra corrente in quegli anni:” un suino-quattro abitanti equivalenti” e l’Emilia-Romagna ospitava la più grande concentrazione di suini in Italia. In quegli anni cominciarono anche esperimenti diffusi promossi dalla Regione per l’uso razionale delle sostanze chimiche e per la lotta biologica guidata nelle colture. Insomma veniva naturale considerare come accanto alla depurazione dovessimo cominciare a incidere anche sui processi produttivi e di consumo a monte. Nella mia introduzione al seminario internazionale dicevo infatti:” Ravvisiamo nel fenomeno della eutrofizzazione costiera un aspetto paradigmatico delle strette interazioni fra modello di sviluppo e qualità dell’ambiente, un esempio illuminante di come scelte apparentemente vantaggiose in una ristretta visione aziendale o settoriale, possono in effetti rivelarsi pesantemente negative in un contesto più generale. L’amara esperienza che stiamo vivendo dovrebbe indurre a ripensare criticamente le linee fondamentali dell’attuale tipo di sviluppo.”Valutando questo insieme di cose, mi pare di poter dire che nel giro di due anni avevamo posto le basi per il lungo e difficile lavoro che seguì negli anni successivi e di cui si dà conto in questo volume. Da queste brevi notizie si può già vedere come si venisse abbastanza presto costituendo quell’impianto politico programmatico, quella orditura di forze, di rapporti, di strumenti e di obiettivi che ci hanno consentito di tenere aperto per lunghi anni e di portare a sviluppi significativi il capitolo dell’Adriatico. Credo che da questa esperienza si possa davvero cogliere la verità della massima attribuita a Salvador De Madariaga, secondo cui: “gubernar non es asfaltar”, in altri termini la differenza fra la normale amministrazione e l’azione di governo. E credo che noi in quegli anni, in Emilia-Romagna, in quel campo (a non solo in quel campo!) abbiamo svolto una efficace azione di governo e di cambiamento. Vediamone le principali componenti.a) Innanzi tutto il rapporto con il mondo della ricerca scientifica. Fu un rapporto basato sul rispetto della sua autonomia, ma anche di grande coinvolgimento. Gli scienziati e i ricercatori (compresi quei due ricercatori speciali di Attilio Rinaldi e Giuseppe Montanari che, oltre che da biologi, sulla Daphne fungevano anche da sub e da mozzi!) si sentivano compartecipi di una impresa che non era solo di conoscenza e di studio, ma era anche di costruzione delle politiche, di verifica e di accompagnamento nei passi avanti e nelle inevitabili difficoltà di quella grande partita. Sentivamo di avere quei tecnici al nostro fianco anche nei passaggi più delicati, anche quando si trattava di smontare tesi e dati interessati, proposti dai rappresentanti degli interessi inevitabilmente colpiti dalla nostre politiche di risanamento. Ricordo il caso degli scarichi della Montedison di Porto Marghera la cui valutazione tradotta in fosforo veniva proposta dai tecnici dell’azienda in 200 tonnellate/anno, contro le stime dei centri di ricerca del CNR di 2000-2300 tonnellate/anno. Ma soprattutto mi piace sottolineare la capacità eccezionale mostrata dalla Regione in quei primi anni di mobilitare competenze scientifiche così diffuse e fra di loro per ragioni istituzionali e geografiche anche così distanti. Questo non fu certo un fattore indifferente per costruire attorno al nostro impegno contro l’eutrofizzazione credibilità e consenso.b) Il saldo tessuto istituzionale Regione-Enti Locali. E’ impossibile sottovalutare il ruolo esercitato da questo rapporto. Sentivamo che solo insieme potevamo dare un significato alla recente conquista dell’istituto regionale. I poteri della Regione erano scarsi e sempre sottoposti al contrasto centralistico, come quando il Governo ci respinse sotto l’impulso della Confagricoltura la legge regionale che rendeva obbligatori i limiti della legge Merli anche per certe tipologie di impianti agricoli. Se si fosse infilato nel rapporto fra la regione e gli Enti Locali la tentazione dello scaricabarile gran parte del lavoro sarebbe andato in fumo. Non fu così non solo per la correttezza dei rapporti istituzionali, ma anche, (ora lo si può dire senza essere accusati di fare propaganda politica) per il forte ruolo di direzione politica che il Pci continuò a svolgere in Emilia in tutti quegli anni. Non a caso una ricerca del 1981 curata dal Prof Putnam e da un gruppo di ricercatori della università di Harvard collocava l’Emilia-Romagna al primo posto fra le regioni italiane per “rendimento istituzionale”. Mi pare inevitabile ricordare qui il dibattito di questi ultimi anni sul ruolo dei partiti, ridotti in questo scorcio di seconda Repubblica a espressioni quasi solamente mediatiche, dominati da leadership personalistiche, svuotati del nerbo essenziale della partecipazione e della militanza e sottoposti all’attacco non disinteressato dei castigatori della “casta”. Contro queste tendenze il dibattito politico culturale più illuminato tenta di riproporre il ruolo dei partiti come mediatori del rapporto fra la società e le istituzioni. Non so se quel ruolo sarà recuperabile. Ma so per certo che quel ruolo era ancora forte in Emilia in quegli anni, nonostante i primi segnali di crisi evidenziati dalla frattura violenta con i movimenti giovanili estremisti del’77. Lo era in primo luogo per il Pci, ma lo era anche per gli altri partiti, dalla Dc, al Psi, ai repubblicani E quel rapporto fra società e istituzioni ci ha consentito di governare il fenomeno della eutrofizzazionec) Il nostro rapporto con il governo centrale. Noi non giocammo mai neanche la carta della contrapposizione ai governi centrali. Certo dovemmo fare molta fatica per farci sentire. A volte sembrava di essere la classica” vox clamantis in deserto”, sembrava che la sorte del grande bacino turistico dell’Emilia-Romagna, cui si stavano sempre più affiancando anche le sorti delle coste venete e marchigiane, non trovasse un Ministro dei Lavori Pubblici, o dell’Ambiente o un Presidente del Consiglio capace di capire cosa stesse avvenendo. Ma alla fine trovammo anche un ministro come Biondi e un Presidente come Craxi, cui si deve dare atto della svolta intervenuta fra la Regione e lo Stato centrale. Essi capirono e ci diedero ascolto e promossero alcune decisioni di peso a livello nazionale, a cominciare da due edizioni del FIO (Fondo Investimenti e Occupazione) nel 1985 e nel 1986, per un totale di 2600 miliardi nelle regioni padane, orientate alla depurazione del Po e dell’Adriatico. Noi non prendemmo dunque la scorciatoia di scaricare le alghe a Roma (anche se portammo in Parlamento le bottiglie dell’acqua eutrofizzata!) per senso di responsabilità, perché volevamo trovare la soluzione del problema e non farne una bandiera di agitazione politica, ma anche perché avevamo una alta considerazione di ciò che avevamo messo in moto e, come si diceva spesso dalle nostre parti in quegli anni, avevamo l’ambizione di svolgere un ruolo nazionale, capace di orientare le scelte nazionali. Di fatto questo avvenne proprio con la legge di modifica della composizione chimica dei detersivi, che noi individuammo rapidamente come un obiettivo fondamentale per incidere sul processo della eutrofizzazione. E sul rapporto col governo centrale e con la Presidenza Craxi si giocò positivamente anche la partita dei fanghi sversati dalla Montedison di Porto Marghera nel nord Adriatico. Un capitolo anche questo importante che girovagò su vari tavoli ministeriali prima di venire a maturazione quando impattò negli anni ‘84/85 sul tema eutrofizzazione e si scontrò con il movimento che era cresciuto negli anni e che aveva negli operatori turistici e nei pescatori le sue punte di lancia.d) Il capitolo dei detersivi illustra meglio di altri il modo di procedere che seguimmo in tutta la vicenda dell’eutrofizzazione. Innanzi tutto ricordo la forte impressione che provai il 6 maggio del’77 quando riuscii a riunire attorno al tavolo della Regione una folta delegazione di Assochimica e dell’industria della detergenza, compresi i rappresentanti delle multinazionali americane. Mi resi conto quasi come con una scoperta improvvisa di quale forza aveva raggiunto la nostra battaglia e mi chiedevo se ero davvero io, l’ex funzionario di federazione del Pci di Modena, quello che aveva avuto l’autorità di organizzare quella riunione con i rappresentanti di una tale concentrazione di potere economico. I termini della discussione erano chiari. Il Governo ci aveva detto di non essere pronto a assumere decisioni nazionali in merito. Noi volevamo comunque ottenere qualche risultato per la imminente stagione balneare. Avevamo anche preso in considerazione la ipotesi di richiedere a tutti i sindaci della costa di emanare delle ordinanze urgenti per vietare l’uso di detersivi contenenti determinati quantitativi di fosforo nei loro comuni. Ma la misura appariva irrealistica e presupponeva pur sempre che le industrie mettessero a disposizione detersivi modificati per la vendita locale. Così propendemmo per l’accordo transitorio con l’industria chimica che si impegnò a mettere in distribuzione nelle provincie di Bologna, Ravenna, Ferrara e Forlì detersivi contenenti non più del 6,4% di fosforo a partire dal 1° luglio di quell’anno e del 5% a partire dal 15 settembre. Ci fu una voce di minoranza in Consiglio che ci accusò di capitolazione. Ma io continuo a pensare che il confine fra il realismo e il velleitarismo in tutte le battaglie politiche e sociali è sempre mobile e va fissato sulla base di una strategia che deve essere chiara e stabile nei suoi obiettivi di fondo, ma altrettanto lucida nella valutazione dei rapporti di forza e dei risultati volta a volta raggiungibili. La questione “detersivi” stava progressivamente affermando la propria centralità. La legge nazionale 136/83 generalizzò il limite del 5% e indicò la metodologia per raggiungerlo. Ricordo durante il suo iter una riunione non semplice a Palazzo Chigi con i sindacati dei chimici (per la Cgil c’era Sergio Cofferati), preoccupati per la sorte degli stabilimenti calabresi che producevano fosfati. Solo qualche anno più tardi, il Parlamento varò la legge 7/86 che eliminò in via definitiva i fosfati dai detersivi.e) Un aspetto importante di tutta la strategia per l’adriatico fu lo sforzo per costruire un discorso a livello del Po e dell’intero bacino padano. Il Po fra l’altro non rientrava fra le competenze idrauliche trasferite alle Regioni. L’unica esperienza che si era potuta avviare riguardava l’accordo interregionale per la navigazione fluviale. Eppure non rinunciammo a costruire forme originali di collaborazione fra le Regioni e il Magistrato del Po per elaborare il piano idrografico di bacino, guardando al fiume nella doppia ottica di fonte di ricchezza (utilizzazione delle acque, derivazioni a fini agricoli e industriali, prelievo razionale degli inerti) e di pericolo (la rotta del Po nel 1951). Intanto, per quanto riguardava l’inquinamento e la legge Merli, ci impegnammo come Regioni padane a concordare i criteri per la redazione dei piani di risanamento e per coordinare le richieste di finanziamento al FIO (Fondo investimenti e occupazione) allora guidato da Giorgio La Malfa. Se sul tema dell’eutrofizzazione avessimo seguito una linea demagogica, avremmo potuto con buoni argomenti scaricare molte responsabilità sulle regioni padane, data la proporzione dei carichi di nutrienti veicolati dal Po in confronto a quelli immessi dalla costa e dai fiumi della nostra regione. E dato che in quegli anni città come Milano e Torino erano ancora sprovviste di depuratori. Ma non fu quella la nostra scelta. Non ci ponemmo dunque né sul piano delle recriminazioni per i ritardi nella depurazione e per il disinteresse sulle conseguenze a valle di questi ritardi (“Pinerolo è distante da Gabicce“, ci fece notare un giorno il prof. Passino), né su quello della contesa per il riparto dei fondi nazionali. Ci impegnammo invece per fare massa critica in termini di proposte e di realizzazioni, mentre dal lato regionale lavoravamo per giungere alla copertura completa dei nostri scarichi urbani e sperimentare tecniche di miglioramento del funzionamento dei depuratori, al fine di trattenere a terra gran parte dei sali nutritivi residuati dalla depurazione. Insomma mentre sollecitavamo gli altri, pensavamo a fare bene anche i compiti a casa, come si direbbe oggi secondo il nuovo linguaggio europeo inaugurato dalla signora Merkel.f) L’eutrofizzazione dell’Adriatico fu senz’altro il tema di maggior rilievo che abbiamo affrontato in quegli anni in relazione alle coste romagnole e ferraresi. Esso si saldava ad altre importanti tematiche che riguardavano quei territori e che costituirono oggetto di altri importanti e contemporanei progetti regionali. Mi riferisco al problema della erosione costiera che potemmo conoscere meglio nelle sue dinamiche anche grazie allo studio delle correnti marine che venivamo facendo per studiare i meccanismi dell’eutrofizzazione. Per contrastare questo fenomeno oltre a interventi immediati di ripascimento delle spiagge e di utilizzazione di nuove tipologie di barriere frangiflutti soffolte, impostammo nuovi criteri per l’autorizzazione o meglio per la riduzione delle escavazioni negli alvei dei fiumi e istaurammo una collaborazione con il Magistrato del Po per contenere l’asporto delle sabbie dal fiume, il cui prelievo sregolato arrecava danni agli argini e impediva il naturale ripascimento delle spiagge. Peraltro mentre combattevamo questi danni in superficie si verificava anche un processo di subsidenza del suolo, il cui effetto aggravava l’erosione costiera. Da qui la legge 845/80 (detta “per Ravenna”) per la chiusura dei pozzi e il blocco dei prelievi di acqua di falda nella pianura da Bologna al mare. Ai bisogni di acqua per usi agricoli sopperiva il canale emiliano romagnolo con l’acqua da Po e si veniva nel frattempo costruendo la grande diga di Ridracoli, il cui invaso fornisce oggi acqua potabile a tutta la Romagna. Insomma eutrofizzazione, erosione costiera, subsidenza e fabbisogno idrico furono grandi capitoli della programmazione della regione e degli enti Locali di quegli anni. Capitoli che ancora oggi costituiscono la traccia delle politiche del territorio della Regione. Io credo che l’insegnamento più ricco di futuro della vicenda eutrofizzazione stia nello sforzo che abbiamo compiuto per risalire a monte del fenomeno. Risalire a monte geograficamente, nel senso di indagare e cercare di contenere gli apporti di sostanze eutrofizzanti dal territorio retrostante l’Adriatico fino a tutto il bacino padano. Ma più importante ancora risalire a monte nel senso di individuare e cercare di modificare i processi produttivi che ne erano all’origine. Parlavamo spesso in quegli anni dell’esigenza di “cambiare il modello di sviluppo”. Non c’era dibattito sull’inquinamento che non si concludesse con questa indicazione riassuntiva. Questo slogan è ancora più che mai al centro dei dibattiti di questi ultimi anni, da quando nel 2007 è esplosa la grande crisi economica e finanziaria internazionale. Il termine viene usato in diverse accezioni e con intenzioni di portata più o meno globali: dal modo in cui è inteso nelle conferenze internazionali sull’ambiente a quello in cui è usato nei dibattiti di politica economica, per criticare la predominanza assunta dalla finanziarizzazione sull’economia “reale” a livello mondiale. Più il campo si allarga più sembra che la visuale si faccia più chiara, ma anche gli obiettivi concreti più inafferrabili. Da qui l’emergere sovente di un senso di impotenza e di rassegnazione, col seguito inevitabile di fatalismo e pessimismo cosmico che attraversano come grandi correnti l’opinione pubblica internazionale. Effettivamente l’umanità è attraversata da sconvolgimenti sul piano economico e sociale e sul piano ecologico che non pare attrezzata a governare, né sul piano scientifico, né ancor meno sul piano delle capacità istituzionali e della volontà politica. Le domande a questo livello non consentono per oggi una previsione o una risposta certe. Mi viene tuttavia in mente uno slogan degli ecologisti di alcuni anni fa, quello che diceva “pensare globalmente, agire localmente!” Questa, guardato a posteriori, mi pare la linea che abbiamo seguito negli anni ’70 e ’80 sull’eutrofizzazione. Mi sento ancora fiero del fatto che arrivammo a concepire di intervenire sull’agricoltura, sugli allevamenti, sulle tecniche colturali, cioè sui processi produttivi diffusi, assai più difficili da controllare e trasformare in confronto alla questione dei detersivi. Sicuramente alla fine la modifica della composizione chimica dei detersivi incise assai di più di quello che riuscimmo a fare in agricoltura. Ma era la strada imboccata che era importante, perché indicava quello sforzo capillare che insieme a grandi decisioni strategiche di livello nazionale e internazionale, può dare un senso concreto alla volontà di “cambiare il modello di sviluppo”. In una delle ultime relazioni di bilancio come Presidente della Regione nel febbraio dell’85 scrissi:” Prendiamo il caso dell’Adriatico! Quando un tema così drammatico sia dal punto di vista ecologico, che economico, diventa il filo conduttore col quale si può risalire al modello di certi consumi di massa (i detersivi), a certi modi della produzione agricola e industriale, alle errate priorità degli investimenti pubblici, all’uso del territorio dell’intera Valle Padana, fino a rimbalzare sullo stesso funzionamento del polo chimico di Porto Marghera, allora è evidente che già oggi dentro la crisi bisogna innescare quei processi radicali di rinnovamento e trasformazione con i quali costruire un futuro migliore” Mi sembrano parole ancora pienamente valide, anzi più valide nella crisi di oggi che in quella degli anni ’80. Sono passati trent’anni, il miglioramento dei fenomeni di eutrofizzazione dell’Adriatico ci dà un segnale di fiducia, ma in un contesto in cui gli squilibri sociali e ambientali si sono aggravati sotto tutte le latitudini. Nel 1980 fu presentato a Bologna un numero speciale della Rivista Trimestrale diretta da Franco Rodano dal titolo intrigante “Afferrare Proteo!”. In esso si sosteneva la ipotesi del “consumatore collettivo” come strumento per correggere i fallimenti del mercato. L’ipotesi non ebbe molto seguito, fra l’altro stavamo entrando in anni in cui si andava in direzione opposta. Venivano infatti messe in discussione e progressivamente smantellate le politiche e le strumentazioni del keynesismo e del compromesso socialdemocratico che avevano contrassegnato il primo trentennio del dopoguerra. Quello che la letteratura successiva avrebbe definito i ”trenta anni gloriosi” per le conquiste di benessere e di progresso sociale che li caratterizzarono. Stavamo entrando negli anni del neoliberismo, della Tatcher e di Reagan. La cosa tuttavia che mi rimase impressa di quella iniziativa fu l’accostamento del mercato alla figura mitologica Proteo, l’inafferrabile figlio di Oceano, capace di predire il futuro a chi fosse stato in grado di catturarlo. Intervenendo in Consiglio regionale l’11 marzo ’81 feci un bilancio delle trasformazioni della società regionale, per concludere che, ”Dato gli alti livelli di sviluppo economico e di civiltà sociale e politica, l’Emilia-Romagna era una regione dove, se non fosse per principio inafferrabile, potremmo dire che abbiamo afferrato Proteo”. Rimasi a lungo convinto di quello schema di lettura delle caratteristiche della nostra Regione. Ancora nell’85 era unanime il riconoscimento delle alte prestazioni economiche, sociali e civili dell’Emilia-Romagna. Si discuteva se la ragione fosse da ricercare in fattori prepolitici, nella particolare subcultura e nel civismo storicamente operante in Emilia-Romagna (la tesi del libro di Putnam: La pianta e le radici. 1985), o se invece fosse da ricercare nel lavoro politico e di governo delle forze di maggioranza e del Pci in particolare. Io risposi in Consiglio Regionale: ” Credo che la risposta vada ricercata in una specie di circolo virtuoso che a più riprese si è innescato in questi anni fra l’azione politica e le potenzialità sociali e civili di questa regione o, se vogliamo dirlo in altro modo, in quella particolare compresenza di governo forte e mercato forte, in quei particolari rapporti di forza storicamente consolidati, in cui una imprenditorialità diffusa e dinamica ha operato all’interno di un quadro politico e sociale caratterizzato dalla forza del movimento operaio e democratico e da un elevato grado di progettualità e di capacità di iniziativa delle istituzioni e delle rappresentanze politiche della sinistra.” Riletto oggi quel quadro mi pare una sintesi efficace di quella socialdemocrazia inconsapevole che fu il Pci emiliano. Ma gli anni che seguirono stesero su quelle parole la patina delle stagioni concluse. Eravamo alla vigilia dell’implosione del Pci in Italia, “il socialismo reale” stava chiudendo i battenti, mentre sul piano mondiale le forze del mercato stavano gonfiandosi dando vita a una nuova ondata di trasformazioni proteiformi che rendevano ancor più ingovernabile sia dal punto di vista economico che ecologico il mondo. Fino a giungere alla crisi attuale, più profonda e globale di quella del ’29. Tutto ciò non vanifica le lezioni che possiamo trarre dalla esperienza del contrasto dell’eutrofizzazione negli anni ’70 e’80, ma ci dice anche come si sia fatto ancora più difficile e complicato l’impegno per realizzare un “nuovo modello di sviluppo”. Ne parliamo sempre più spesso come alternativa a una quotidianità che sembra spegnere le speranze e indurre sempre più persone alla morale di “io speriamo che me la cavo”. Il bagaglio di proposte, anche fra di loro in conflitto, si è arricchito enormemente. Dobbiamo avere l’avvertenza di sottoporle tutte alla prova del realismo e della possibilità di attuazione progressiva, evitando l’illusione di svolte palingenetiche che si realizzano solo nel mondo dei sogni. Sembra comunque che le idee, anche le più illuminate, cozzino contro l’egemonia incrollabile del pensiero neoliberale e contro una barriera di interessi insormontabili per la loro forza di coercizione e per la loro dimensione internazionale, se non mondiale. Eppure bisogna continuare a combattere nel locale e nel globale, ricordandoci sempre che c’è una forza delle idee, ma c’è anche una forza dei fatti, che spesso nella storia si è imposta anche attraverso la logica della sopravvivenza. Del saper trarre ex malo bonum.