LO STRIKE IRANIANO NON E’ LA FINE MA L’INIZIO

Chi parla di equilibrio ristabilito, pari e patta, ecc, secondo me ha capito fino a una certa. Lo strike iraniano non è la fine ma l’inizio. Anche perché non c’è solo Teheran ad avere alcuni desideri per il futuro del Medioriente. Non si trattava tanto di vendicare Suleimani con il raid di ieri notte, quanto semmai di continuare a perseguire il suo progetto, e cioè quello del totale ritiro americano dalla regione. Lo strike non pareggia e non ristabilisce nulla, in un certo senso lo strike sarebbe facilmente potuto avvenire anche senza l’omicidio di Suleimani. Se gli Usa non se ne vanno ci saranno altre azioni di vario genere. A maggior ragione se, con la morte di un leader militare carismatico come Soleimani, in grado di esercitare influenza, parziale controllo e contegno su centinaia di migliaia di persone armate nell’intera regione, non saranno pochi i membri di milizie (che ricordiamoci sono gruppi paramilitari composti anche da gente a caso, senza preparazione ma molto motivata) e giù di lì che agiranno per conto proprio, mossi unicamente da un distillato di rabbia personale verso quelli che vedranno come gli assassini della loro guida. E a quel punto sarà anche parzialmente fuorviato attribuire direttamente queste azioni a Teheran, che senza Suleimani non è in grado di controllare tutte le milizie piccole e grandi sul campo. Le quali, in questo momento, sembrerebbero in preda allo shock e al caos totale, avendo perso in una botta sola Suleimani, cioè il loro “ideologo”/regista, e Al Muhandis, il loro principale comandante militare, nonché fondatore in prima persona di gran parte dei gruppi paramilitari. Ma forse è proprio uno scenario al quale Trump vuole arrivare, magari concludendo uno strike “esemplare” venduto come rappresaglia a quelli che potrà promuovere come “attacchi deliberati”, anziché la coda delle reiterate e decennali “richieste” di un ritiro votato anche dal parlamento iracheno, e richiesto da 17 anni.