IL GIORNO DELLA MANIFESTAZIONE DEGLI SQUATTER A TORINO NEL 2000

IL GIORNO DELLA MANIFESTAZIONE DEGLI SQUATTER A TORINO NEL 2000

[Oggi a Torino ci sono cinque cortei degli anarchici, la città è, come piace scrivere ai giornali, «blindata». Nel febbraio 2000 ero allievo carabiniere e avemmo dei problemi a uscire per l’altrettanto blindata «manifestazione degli squatter». Qualche anno dopo su quel giorno scrissi un racconto]. Il giorno della manifestazione degli squatter il comandante del battaglione era preoccupato.Circolavano voci secondo cui sarebbe stata battaglia feroce contro tutto e contro tutti, i commercianti allarmati avevano annunciato chiusi i loro negozi, i giornali avevano dato imminente la guerriglia, il Questore aveva disposto il massiccio impiego di poliziotti del reparto mobile e di carabinieri del battaglione Piemonte.Il comandante del battaglione impiegò qualche ora a decidere.«Non ci fanno uscire, bastardi!», aveva detto un allievo in mattinata, convincendo in poco tempo del suo pensiero tutta la compagnia.Il capo-compagnia, un ragazzo di Milano che aveva ottenuto quel ruolo non si sa come, essendo per età tra i più piccoli e non rendendo manifesti altri meriti, contrattava con il comando garantendo che nessuno avrebbe raggiunto la zona interessata dal corteo.«Si esce, ragazzi, tranquilli che si esce», aveva detto un altro qualche ora dopo, faticando a convincere i colleghi ormai rassegnati.L’ordine arrivò alle due del pomeriggio, e seppe subito di compromesso: «Potete uscire, ma in borghese». Gli allievi della Cernaia avevano infatti l’obbligo di uscire in divisa fin dal giorno dell’ingresso al corso.«Minchia allora la cosa è seria», aveva detto Ingargiola, un allievo di Palermo, commentando la portata della deroga. Ne seguì un implotonamento infinito in cui il tenente colonnello ci prese come bambini che andavano indottrinati a non accettare le caramelle dagli sconosciuti, catechizzandoci con la specifica paternale secondo cui «tutto è sotto la vostra responsabilità».Eravamo in sei: Genta (nemmeno vent’anni, un comasco delle montagne), Gerardi (un friulano biondo, ultrà della barca Luna Rossa), Ferruzzi (un lombardo taciturno, esperto di informatica), Francini (un abruzzese che amava le arti marziali) e Palladino detto Beck (uno che studiava filosofia a Palazzo Nuovo).Mancavano cinque giorni alla destinazione e quasi tutti sognavamo il battaglione, il battaglione voleva dire ordine pubblico e supporto alla territoriale nelle operazioni speciali, l’adrenalina era a mille e già ci immaginavano allo stadio a caricare gli ultrà o a sgomberare i centri sociali o a far retate contro gli spacciatori al parco. La manifestazione degli squatter, il corteo di protesta e devastazione annunciati per ricordare due di loro che si erano uccisi in carcere («Li ha uccisi lo Stato!», dicevano) era la punta sul cucchiaio di un piatto profumato ancora sul fuoco, che sarebbe stato in tavola entro poco.Il corteo doveva arrivare in piazza Vittorio Veneto e lì ci dirigemmo. Volevamo vedere, imparare come si contiene una folla, che cosa si fa in guerriglia, cosa succede quando il comandante ordina la carica. Passammo le ore raccontandoci cose a venire che davano piacere soltanto a pensarle, e nemmeno ci accorgemmo del tempo finché fu chiara una cosa: il corteo non arrivava.«Saranno stati fermati a Porta Palazzo!», disse Genta.«Li staranno menando», disse Francini.Ci avviammo verso corso San Maurizio attraverso via Giulia di Barolo. In giro non c’era nessuno, eravamo a cinquanta metri da piazza Vittorio eppure tanto là c’era l’idea dell’abituale, brulicante, rallentato sabato pomeriggio, quanto qui l’irrealtà del deserto era un segno dello straordinario. Qualcuno guardava dai balconi un ideale punto all’orizzonte, dietro i palazzi, dove c’era il corteo.Finalmente vedemmo due carabinieri, andammo loro incontro con la felicità dentro, invece venimmo assaliti dalle urla rabbiose dei due militari che ci chiesero con imperioso comando i documenti. Intimiditi in ogni parte del corpo e nelle espressioni del viso, tirammo fuori il tesserino della Scuola Allievi.«Gli allievi! Gli allievi! Ci mancano gli allievi! Andate via, che cazzo fate qui?!?! Via!»Era un appuntato della stazione Torino Vanchiglia, aveva la consegna di non far passare nessuno. Dei manifestanti si sentivano adesso le urla, dovevano essere a pochi isolati di distanza, in moto non uniforme verso la piazza. Chiedemmo, prima di correre via, al futuro, sperato quanto prima, collega se mai sarebbero arrivati in piazza Vittorio.«No, li disperdono prima, ma adesso ragazzi allontanatevi, davvero», disse ora mansueto.Finimmo in un bar di piazza Bodoni. Palladino prese un tovagliolo di carta e una biro e li porse. «Vivi veloce muori presto», scrisse Francini. «Nella città di Satana non c’è un cazzo di metal! Pazzesco», scrisse Ferruzzi. «Corso 229° il migliore», si limitò il giovane Genta. «L’adrenalina è al max e il btg si avvicina…speriamo», scrisse Gerardi.Stropiccio con la mano quel tovagliolo, delicatamente. A fare ordine pubblico finirono soltanto Ferruzzi e Genta, Francini venne mandato a presidiare il Parlamento, Gerardi e io finimmo in stazione. Palladino andò ai Tuscania, paracadutista, fece firma e finì all’estero, ammalandosi qualche anno dopo per l’uranio impoverito. Ferruzzi oggi ha un negozio, chissà se ci pensa a quel giorno, quando gli capita di abbassare la saracinesca.