PER COMBATTERE LE FALSE GERARCHIE BISOGNA RICONOSCERSI. DAVVERO

PER COMBATTERE LE FALSE GERARCHIE BISOGNA RICONOSCERSI. DAVVERO

Diversi filosofi hanno detto che ciò che ci muove nella vita non sono le idee, i bisogni materiali, lo spirito santo, il DNA, ma il riconoscimento. Tutto lo sbattimento che facciamo, lo studio, il lavoro, i vestiti che ci mettiamo, la musica che ascoltiamo, le cose che raccontiamo: tutto è finalizzato a farci riconoscere dagli altri. A farci innanzitutto accettare, ovvero riconoscere come uguali, e sentirci così parte di qualcosa, traendo dal gruppo una sicurezza. E poi magari a farci riconoscere come belli, intelligenti, buoni, potenti. E in questo modo diventare un riferimento per qualcuno, fosse anche una micro-cerchia, e sentire così che la nostra vita conta. Abbiamo bisogno di farci riconoscere perché da soli non possiamo sentire la nostra stessa vita. Ovviamente il modo per essere riconosciuti cambia a seconda dei valori che si affermano in un momento storico o in un dato gruppo umano: in una società feudale magari si vuol essere riconosciuti per l’onore in battaglia o la fede cristiana… La società capitalista ha l’innegabile “merito” di semplificare le dinamiche del riconoscimento. Anche a questo servono i soldi. Io non posso sapere quanto sei un buon cristiano, quante preghiere fai, però posso subito capire dai soldi che hai quanto vale la tua vita – cioè quanta visibilità accentri, quante relazioni costruisci, quanto potere ti puoi permettere, quanto sei desiderabile. I soldi quantificano e danno così un criterio di misura oggettivo fra esseri qualitativamente diversi. La gente si ammazza per i soldi mica perché poi ci fa qualcosa per davvero, arrivati a un certo punto manco se li riesce a godere, però quei soldi nel capitalismo sono la chiave di accesso al godimento che ci viene dal riconoscimento. Così i soldi entrano nella costruzione della socialità non solo come possibilità materiale che mi danno, ma come “spettacolo” che allestiscono. Per questo i luoghi del divertimento si costruiscono come esclusivi, si paga l’ingresso, ci si guarda i vestiti, le macchine. Per questo sui social si riversa la testimonianza del fatto che abbiamo i soldi, o che quantomeno vorremmo averli. Per un giorno facciamo anche noi i signori, per dire al prossimo: vedi che se non fossi nato sfigato potrei essere anche io una star. Riconoscimi almeno questo! Ovviamente siccome molti dentro sto discorso non riescono a starci o giustamente lo rifiutano, si creano all’interno del capitalismo controculture e sottogruppi umani in cui non sono i soldi a far accedere al riconoscimento, ma altre dinamiche. E’ la potenza di un gruppo ultras, in cui non conta se sei ricco o povero, bello o brutto, ma se hai “mentalità”, di una setta rivoluzionaria in cui il rispetto lo guadagni a botte di denunce, di un gruppo cristiano di base in cui è riconosciuto chi è più generoso… Il problema è che frequentemente queste bellissime aggregazioni si rovesciano in una forma di comunità terribile per cui quello che sei – e quello che in te continuamente cambia – deve essere messo da parte in nome di un’adesione a quella singola modalità di riconoscimento. Nei gruppi piccoli si crea più facilmente il conformismo. Per cui se inizi a comportarti un po’ diversamente, se pensi qualcos’altro, non vieni più riconosciuto… Dopo un po’ si esplode, spesso si torna ai valori dominanti, che almeno apparentemente lasciano più libertà perché abbracciano più gente. Magari le cose che hai imparato nel sottogruppo umano le usi per fare soldi nella società e il cerchio si chiude. Ecco, a questo pensavo ieri camminando per l’Ex OPG Occupato – Je so’ pazzo pieno di gente di tutti i tipi per festeggiare la Pasquetta. Quant’è diverso… Il miracolo di luoghi come questi – ce ne sono a Napoli e in Italia: la Val Susa, Riace… – è che se ci entri nessuno ti giudicherà per quanti soldi hai o per i vestiti che hai indosso. Non ti giudicherà per il colore della tua pelle, per la tua professione. Non ti giudicherà nemmeno per quanto somigli alla gente che lo occupa. Ma ti riconoscerà perché stai lì, perché esisti, perché vuoi condividere qualcosa. Per quello che sei, o forse di più: per quello che vuoi diventare. Insieme agli altri, né sotto né sopra. Tipo quando si giocava da bambini. Non è questione solo di un luogo o una serata: è questione di un modo, di uno stile, di un orizzonte di vita che affiora in diverse parti d’Italia ma che non ha ancora un’espressione politica organizzata. E gliela dobbiamo dare. Perché è la cosa più reale e popolare, la più efficace che abbiamo, per combattere contro le false gerarchie dei soldi o della pelle. E riconoscerci davvero.