SUDAN. VENGONO AL PETTINE I NODI CONSEGUENTI IL GOLPE MILITARE

SUDAN. VENGONO AL PETTINE I NODI CONSEGUENTI IL GOLPE MILITARE

Sudan, golpe riuscito, in aprile, ma l’ordine regna a Khartoum. Le immagini della donna che non porta il velo, simbolo tutt’al più parziale di una rivolta dalle origini ben più complesse, cedono il posto a notizie che parlano di 35 morti nel corso di un recente sit in. Il gruppo di professionisti e intellettuali che ha dato il via mesi fa alla protesta sembra arrancare in un clima di scontro che riduce gli ambiti di una possibile mediazione. Come prima e più di prima si accumulano gli interrogativi. In un primo momento era dato per certo e condiviso un governo di transizione dei militari (due anni). Poi si era parlato di una transizione più lunga (tre anni) ma con una più forte rappresentanza della componente dei civili. Allo stato odierno delle cose sono i militari stessi che, per meglio tenere in pugno la situazione, anticipano a nove mesi il ricorso a nuove elezioni. Nove mesi nei quali è presumibile che tutto rimanga sotto il loro controllo. I morti dei giorni passati non alleggeriscono il clima anche se i militari paiono quasi scusarsi classificando la tragedia come una sorta di effetto collaterale generato dalla necessità di reprimere gruppi criminali infiltratisi nel sit in. Beato chi gli crede. Peraltro dopo la deposizione e l’arresto di Bashir per 30 anni a capo del paese, molte cose erano rimaste in sospeso. Sullo sfondo la questione del petrolio, soprattutto quello che si trova nel vicino e poco stabile Sud Sudan, lo stato secessionista la cui traballante realtà ha nuovamente conferito al vicino Sudan un posizionamento centrale, dal punto di vista geopolitico. A un tiro di schioppo dall’ancora meno affidabile quasi omonimo vicino. Un’area al centro degli interessi energetici di mezzo mondo. Quel mezzo mondo e oltre che va dalla Cina agli Stati Uniti passando per l’Europa, Russia compresa, senza contare chi il petrolio lo possiede già come Arabia Saudita e Iran e potrebbe nutrire qualche progetto volto a coinvolgere i nuovi venuti.. Non ultima va tenuta presente una componente di guerrieri, i così detti contractors, pronti a gettarsi nella mischia a gentile richiesta dei singoli governi alla ricerca di maggiore sicurezza. E qui il riferimento va al gruppo Wagner (Russia), ma anche, sul fronte opposto, ai Blackwater, multietnici ma con casa madre negli Usa. In genere paesi senza quel passato coloniale intrigante che li renderebbe pregiudizialmente ospiti sgraditi nei contesti africani. La caduta di Bashir ha dunque rappresentato una svolta epocale per il paese? Va tenuto conto che il vecchio leader aveva cercato di non essere sbalzato di sella facendo le capriole per non scontentare nessuno. Non certo i russi, amici di sempre, e neppure la Cina, astro nascente, ma nemmeno gli Stati Uniti. Nonostante ciò, su quest’ultimo versante non aveva potuto esimersi da uno strappo. In sede Onu, infatti, il Sudan aveva assunto posizione contro le sanzioni all’Iran. Il che, oltre che a Tehran, poteva garbare a Mosca, ma non certo a Washington e a Riad, né tanto meno a Tel Aviv. Un sottile gioco di equilibri internazionali. Impossibile dunque capirci qualcosa facendo riferimento esclusivo a quanto avviene sulle piazza di Khartoum, per quanto possa suscitare simpatia un movimento innovativo e ispirato ai diritti umani, come quello guidato dagli intellettuali sudanesi. Resta da vedere se il cambio della guardi culminerà nello spostamento dell’asse delle alleanze del Sudan verso l’occidente oppure, più probabilmente tutto si concluderà col rafforzamento più o meno ritoccato delle vecchie alleanze con un governo militare più stabile a livello interno e più affidabile su scala internazionale. L’ombra del “gattopardo” (che tutto cambi purché nulla cambi) grava probabilmente sul paese, anche se la risposta della piazza resta ancora da scoprire.