SULLE GUERRE DELLE PETROLIERE

SULLE GUERRE DELLE PETROLIERE

Gli osservatori mettono le mani avanti: non è l’inizio di una guerra. Però aggiungono: è così che potrebbe iniziare. Anche perché le esplosioni a bordo di due petroliere a est dello Stretto di Hormuz non sono più un caso isolato, bensì parte di una catena di eventi regionali che si mescolano a sfide globali. E di mezzo ci sono l’economia, la libera navigazione, la partita mai finita tra Iran e Usa, con il seguito di alleati interessati.Sfogliamo il calendario. Un mese fa, il 12, il caso misterioso al largo del porto di Fujairah, negli Emirati Arabi Uniti: è il primo sabotaggio contro navi cariche di greggio. L’inchiesta parla di responsabilità di uno stato, i sospetti puntano sugli iraniani, si ipotizza l’uso di mine magnetiche, però le accuse restano a metà.Dopo la storia di Fujairah, sono i guerriglieri sciiti Houti – molto abili anche nei sabotaggi in mare e sostenuti dall’Iran – a sfidare i sauditi. Prima con l’attacco di droni, quindi con lancio di un missile contro un aeroporto civile. Colpi minori, ma di grande effetto. Il 7 giugno sono gli iraniani a raccontare dello strano incendio a bordo di alcuni loro piccoli cargo, i classici dhow, divorati dalle fiamme. Circolano anche delle foto, nessuna teorie sulle cause. Passano i giorni, un’altra sorpresa, con gli scafi della Front Altair e della Kokuka Courageous squarciati da qualcosa: un siluro, un ordigno, di nuovo le mine. Fonti statunitensi lasciano trapelare la voce che ci siano ancora gli iraniani, si scrutano le coste in cerca di indizi, si analizzano i tracciati di imbarcazioni. Lo scenario è quello di un’iniziativa condotta dai pasdaran in modo diretto o attraverso un gruppo affiliato. Un modo per mettere alla prova gli Stati Uniti, costringendoli ad una reazione di deterrenza. Chi non crede alla tesi parla di provocazione montata ad arte per cercare un casus belli proprio mentre Donald Trump minaccia i mullah. Teheran nega qualsiasi responsabilità, però è interessante che le prime notizie per entrambi gli incidenti siano arrivate da media vicini all’Hezbollah. I russi (e non pochi esperti) invitano a non trarre conclusioni affrettate. Suggerimento ragionevole vista la delicatezza del dossier e le implicazioni che coinvolgono molti attori.In questi ultimi anni i contendenti della regione hanno cercato di dotarsi di materiale per la guerra subacquea. Gli iraniani si sono rivolti ai nord coreani anche se in passato sembra che abbiamo fatto buona pesca anche da noi. Gli sceicchi sunniti, grazie budget generosi, hanno comprato in Occidente, Italia compresa. I militanti sciiti partner di Teheran in Medio Oriente – Houti yemeniti e Hezbollah libanesi – hanno sviluppato unità agguerrite. Chiunque, se lo vuole, può creare problemi al traffico civile, una ripetizione di quanto avvenne negli anni ’80 durante il conflitto tra Saddam e Khomeini.Quanto è avvenuto ieri fa comodo e preoccupa, nello stesso tempo, i due schieramenti. Infatti possono denunciare i pericoli per un settore strategico interno ed internazionale, si sentono in diritto di mobilitare le loro forze militari, hanno un buon motivo per sollecitare l’intervento della diplomazia al fine di evitare che le fiamme sulle petroliere diventino la scintilla per un rogo devastante. Il petrolio è per tutti o per nessuno, i guardiani della rivoluzione hanno più volte minacciato di chiudere Hormuz come ritorsione.Se è vero che un gesto doloso da parte dei khomeinisti mentre ricevono il premier nipponico Shinzo Abe in veste di mediatore sembrerebbe improbabile, è altrettanto vero che l’arcigno leader Alì Khamenei ha escluso nei colloqui con il suo interlocutore qualsiasi negoziato con Washington. Così come sono ben chiare le intenzioni della parte interventista statunitense. E allora c’è spazio per il resto.Le manovre sottomarine, gli incursori, le cariche sono soluzioni ideali: creano tensione senza lasciare un’impronta precisa e concedono tempo ai protagonisti. Almeno per il momento.