UN PAESE NORMALE

UN PAESE NORMALE

Proviamo ad immaginare, per quel poco che ci è possibile, cosa possa aver passato uno qualsiasi dei 43 naufraghi che da dieci giorni ballonzolano tra le onde a bordo della Sea Watch. Naufraghi, o profughi, o clandestini non fa differenza. Donna, uomo, bambino o ragazzone palestrato non fa differenza. Ognuno di loro ha lasciato il proprio mondo per salvarsi la vita, e che essa fosse minacciata da un mercenario col kalashnikov, da una carestia o da un’epidemia non fa nessuna differenza. Potrebbe provenire dal Congo, dalla Nigeria, dal Sudan, dalla stessa Libia o da un qualsiasi altro paese africano. Il sogno è lo stesso per tutti: raggiungere a qualsiasi costo un luogo “normale” dove lavorare per provare a salvare la vita dei propri familiari rimasti all’inferno. Un luogo normale, non un paese di Bengodi dove si fa pacchia mangiando a sbafo e raccogliendo gli smartphone dagli alberi. Morti per morti tanto vale provare, e allora si parte per raggiungere quella costa nordafricana che affaccia sui paesi normali. Con mezzi di fortuna e spesso a piedi molti di loro ci riescono. La fatica, la paura e la fame fanno parte delle loro vite da quando sono venuti al mondo ed è per questo che ci riescono, noi abitanti dei paesi normali desisteremmo o creperemmo entro i primi 50 chilometri. Molti di loro ci riescono, ma il peggio deve ancora venire. Ogni passo che li avvicina alla costa li trasforma in merce, uguali al petrolio, alla frutta e ai minerali che vedevano partire dalla loro terra per arricchire malfattori di ogni colore. Ed i malfattori sono lì ad aspettarli per infilarli nei magazzini di stoccaggio, quei famosi lager che un paese normale come il nostro ha deciso di finanziare. Altri malfattori, meno potenti ma altrettanto criminali, faranno scempio di quella merce. Tortureranno i maschi e stupreranno le femmine nella speranza che qualcuno che a quella merce vuole bene possa scucire dei quattrini per agevolarne lo sdoganamento prima che deperisca troppo e magari crepi. Alcuni ce la fanno, vengono portati fuori dai “magazzini” e caricati alla rinfusa su imbarcazioni spesso destinate al naufragio. Ai criminali africani non importa più nulla di loro, finiscano pure in fondo al mare e se qualcuno verrà riportato indietro ancora meglio, finirà di nuovo in magazzino per ripetere tutto il ciclo. Il numero iniziale si è molto ristretto, a chi voleva raggiungere un paese normale dobbiamo sottrarre chi è morto nel viaggio verso la costa nordafricana, chi è morto nei magazzini, chi in quei magazzini ancora aspetta, chi è annegato nel silenzio e chi è stato ricatturato spesso con il nostro aiuto. Sono rimasti in pochi, pochi fortunatissimi che vengono raccolti dalle navi di soccorso. Sono quei pochi che stiamo tenendo prigionieri in mezzo al mare e sono quelle navi di soccorso che stiamo provando a fermare con ogni mezzo. E saranno quei pochi fortunatissimi che una volta sbarcati nei paesi normali andranno a raccogliere i nostri pomodori, a pulire i nostri cessi ed il sedere dei nostri vecchi, a farsi scopare da qualche camionista arrapato e magari a vendere un po’ di droga per qualche italianissimo trafficante. Certo, noi siamo un paese normale.