FERMARE IL MASSACRO DELLA RIFORMA FORNERO.

Una delle più grosse sconfitte del liberismo imposto, per tutta la sua permanenza al governo da Silvio Berlusconi sin dal lontano 1994 è stata la “flessibilità del mondo del lavoro”, ovvero il concetto che la crescita dell’ occupazione Italia fosse bloccata dalle troppe tutele sindacali nei confronti dei lavoratori, visto che (sostenevano) tanti datori di lavoro potrebbero essere interessati a fare nuove assunzioni per incrementi di attività ma sono spaventati dal farlo dal dover essere vincolati anche a fronte di un potenziale calo del lavoro. A detta di questi economisti liberisti, liberalizzare il mercato del lavoro privandolo di tutti i “vincoli” imposti dalle leggi esistenti e dalle tutele sindacali avrebbe avuto, come riflesso, un incremento di nuove assunzioni da parte dei datori di lavoro, non più soggetti a vincoli e limitazioni. La prima opera di demolizione riguarda il lavoro a tempo determinato, istituito con una legge del 1962, la numero 230 che iniziava recitando “Il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, salvo le eccezioni appresso indicate”, nella quale venivano previste solo le attività stagionali, sostituzione di personale assente per malattia/maternità/infortunio sul lavoro, spettacoli teatrali o attività aeroportuali e di trasporto aereo per picchi di attività. Successivamente, una legge del 1983, la numero 79 estendeva la possibilità di assumere a tempo determinato anche alle attività turistiche per durata non superiore a tre giorni nel caso di ricevimenti, pranzi, fiere o attività straordinarie documentabili e, per tutti i datori di lavoro previa autorizzazione del locale Ispettorato del Lavoro: tale procedura, che noi tecnici chiamavamo “intensificazione”, era una domanda in carta da bollo che doveva contenere il numero di persone a tempo determinato che si intendeva assumere indicando dettagliatamente le motivazioni e i periodi precisi in cui si intendeva procedere; valutata nella sua congruenza da una commissione composta da un membro nominato dal direttore dell’ Ispettorato del Lavoro, un rappresentante nominato dalle associazioni dei datori di lavoro e un rappresentante dei sindacati dei lavoratori veniva o meno approvata con eventuali correzioni nel numero del personale concesso o nella durata, a fronte di richieste sperequate o immotivate. E questa è stata una buona legislazione, visto che ha condotto l’ Italia dalla ricostruzione postbellica al “miracolo economico”, con una occupazione stabile e un reddito certo per i lavoratori: nel 1988 quando iniziai a gestire pratiche del personale, indicativamente, il 20% delle assunzioni erano effettuate con contratto di formazione e lavoro o apprendistato (giovani che venivano inseriti nel mercato del lavoro), un 10% di assunzioni a tempo determinato (i precari) e un 70% di assunzioni a tempo indeterminato, ovvero di stabile e certa occupazione: periodi d’ oro, periodi in cui una economia stabile ci fece entrare tra le economie forti che adottavano l’ euro come moneta unica. Nel 2001 la legge 368 stabilì che si poteva assumere a tempo determinato senza più vincoli o limiti in qualsiasi caso generico, recitando “è consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”: ovvero, in qualsiasi caso l’ azienda volesse non assumere personale a tempo indeterminato, pattuire periodi prova più lunghi di quelli stabiliti dalla contrattazione collettiva e imporre strozzinaggio ai lavoratori che se non avessero rinunciato ai loro diritti (troppe malattie a giudizio del datore di lavoro, straordinari pagati e altro) non avrebbero avuto il contratto rinnovato e quindi sarebbero tornati disoccupati. Una recente statistica del Ministero del Welfare (o del Lavoro, io preferisco), riferita ai primi nove mesi dell’ anno 2012, stabilisce che il 67% delle assunzioni sono avvenute a tempo determinato a fronte del 17,5% di assunzioni a tempo indeterminato, il 6.4 % tramite contratti di collaborazione e finti rapporti di lavoro con partita IVA e solo il 2,5% tramite contratto di apprendistato, ovvero giovani che in forza di un contratto di lavoro “legale” entravano nel mercato del lavoro. Altro atto di demolizione, la legge 276 del 2003, che a spregio del ricordo di una vittima del terrorismo è stata denominata “legge Biagi”, legge che è andata a disciplinare nuovi orridi rapporti di lavoro. Il primo riguarda la collaborazione a progetto, quella che una volta si chiamava collaborazione coordinata e continuativa e in gergo gergale, “quella dei contrattisti”. Trattasi di un rapporto illegittimo in quanto non previsto da alcuna legge ne dal codice civile, un qualcosa nato perché ai legislatori italiani piace fare i coperchi senza le pentole. L’ articolo 24 della Legge 600 del 1973, il famigerato “Testo unico delle imposte sui redditi” che ha inventato l’ Irpef e riformato i meccanismi di tassazione del reddito introduceva il criterio di redditi derivanti da collaborazione coordinata e continuativa, un concetto inesistente nella legge. Mentre i rapporti di lavoro dipendente e autonomo venivano disciplinati dal Codice Civile, quelli libero professionali dalle leggi speciali che istituivano gli appositi Ordini e Albi e quelli di agenzia commerciale dall’ apposito Accordo Economico Collettivo, non vi era traccia nella legislazione del lavoro di cosa fosse una collaborazione coordinata e continuativa, lasciando alla macabra e fraudolenta fantasia del datore di lavoro l’ interpretazione e l’ applicazione di questo concetto astratto. Fino al 2003 solo pochi datori di lavoro, quelli più spregiudicati, si avventuravano in questa palude, consapevoli del fatto che era molto facile venire sanzionati dagli organi ispettivi del lavoro e degli enti previdenziali mentre è con la legge Biagi che finalmente questo istituto normativo truffaldino viene benedetto e legittimato dall’ articolo 61 e seguenti che “finalmente” disciplinano con chiarezza questo orrore chiamandolo “collaborazione a progetto” Questo comporta che, anche i datori di lavoro più timidi, ora possono avvalersi di questo mezzo che permette di istituire rapporti di lavoro di fatto dipendente senza dover riconoscere le retribuzioni minime contrattuali, senza una copertura previdenziale rilevante (in quanto, a parte un minimo contributo pensionistico, non vengono sostanzialmente riconosciute indennità di malattia e maternità) e lasciando il lavoratore sotto la forca caudina di un rapporto instabile, di perenne precariato e senza possibilità di sviluppo e miglioramento futuro. Prima delle recenti misure restrittive imposte dal “decreto Fornero” che è andato solo a recepire in legge con otto anni di ritardo circolari interne del Ministero del Lavoro che volevano limitare e chiarire il campo di applicabilità del contratto di lavoro a progetto, ci sono stati picchi in cui il 30/35% delle assunzioni effettuate avvenivano in tale forma, rapporti di lavoro dipendente in tutto per tutto su cui si voleva imporre precariato, ridurre i contributi da pagare e eludere i diritti personali e contrattuali. Altra perla è l’ introduzione definitiva, certa e normata del lavoro interinale, ovvero del caporalato legalizzato: una volta ci indignavano per la tratta degli extracomunitari che raccoglievano i pomodori a Villa Literno, ora il caporalato è in mezzo a noi, spesso nell’ azienda in cui lavoriamo, spesso con vittime che sono i nostri amici e nostri famigliari. Venne introdotto dal “Pacchetto Treu”, la legge 196 del 1997 ma in maniera ancora troppo approssimativa e poco chiara, per cui inizialmente non riscuote un successo dilagante, mentre con la legge Biagi si stabiliscono casistiche e normative certe e anche in questo caso pure i datori di lavoro più restii si avventano su questa succulenta modalità di assunzione. Cos’ è il lavoro interinale? Un prodotto d’ importazione, proveniente soprattutto da paesi (Germania, Francia, Inghilterra) dove il rapporto di lavoro a tempo determinato non è previsto e che per fattispecie certe e limitate, serve per coprire le necessità temporanee delle aziende. Ma in Italia, dove c’ è già una disciplina specifica per il rapporto a tempo determinato, che senso sostenere un costo del personale superiore dal 10 al 16% rispetto ad una assunzione diretta visto che il lavoratore interinale ha lo stesso costo del lavoro del lavoratore “normale” maggiorato della commissione all’ agenzia che ricerca il personale, lo presta e si fa carico degli adempimenti amministrativi? Risposta: per incentivare l’ evasione fiscale, la frode dei diritti sindacali e delle tutele antinfortunistiche. Le ditte con un organico diciamo superiore a 20 dipendenti (seppur con certi scomputi) perdono il requisito di azienda artigiana divenendo industriali, perdendo di conseguenza riduzioni di contributi INPS, incentivi fiscali dati da semplificazioni contabili e un accesso al mediocredito artigiano una volta molto vantaggioso. Le ditte con più di 15 dipendenti rischiavano di vedersi costituiti all’ interno le Rappresentanze Sindacali Unitarie e applicato lo Statuto dei Lavoratori (la legge 300/70, una pietra miliare nel diritto del lavoro europeo) mentre le ditte più piccole possono licenziare più facilmente e rifiutare il sindacato in azienda. Le ditte fino a 10 dipendenti che non attuino lavorazioni particolari, non debbono attuare alcun adempimento complesso in materia di prevenzione agli infortuni sul lavoro, dovendo redigere solo un “documento di valutazione dei rischi” del tutto superficiale ed inutile; le ditte più grandi invece sono soggette alle visite mediche periodiche, a costose perizie tecniche e ad adempimenti periodici molto più complessi. Le ditte con più di 15 dipendenti sono obbligate per legge a riservare una percentuale delle assunzioni a personale disabile mentre le aziende più piccole possono assumere liberamente chi vogliono senza limiti e senza vincoli. Come eludere tutto ciò? Ovviamente tramite l’ utilizzo del lavoro interinale, perché per esplicita previsione di legge non viene computato come “organico occupazionale del datore di lavoro utilizzatore”: in Italia è lecito frodare il fisco, eludere le tutele antinfortunistiche, il diritto al lavoro del personale disabile ed è anche possibile licenziare più facilmente ed eludere i diritti sindacali, visto che è stato esplicitamente previsto dalla legge sia il mezzo (l’ utilizzo del lavoro interinale) sia la “zona grigia”, ovvero la fattispecie di non sanzionabilità e di impunità per l’ azienda utilizzatrice. “I datori di lavoro sono impauriti perché se assumono poi non sanno come licenziare”: anche questa un’ asserzione abbastanza poco rispettosa dalla legge, perché il licenziamento per giusta causa (quello per grave mancanza del dipendente) è sempre stato previsto dalla legge ed è sempre stato possibile, mentre il licenziamento illegittimo, ovvero quello operato per motivi personali, discriminatori, vessatori o anche insufficienti era sanzionato prima ed oggi lo dovrebbe essere ancora di più, perché mentre negli anni ’70 e ’80 il licenziamento per antipatia era una fattispecie presente ma limitata ora il licenziamento discriminatorio e vessatorio, magari preceduto da un illecito accanimento nei confronti del dipendente viene chiamato mobbing ed è ormai una piaga endemica nel mondo del lavoro. Invece, vengono ridotte le fattispecie in cui un datore di lavoro a seguito di sentenza del tribunale deve riammettere il lavoratore in ditta (la cosiddetta reintegra): ora, basta essere consapevoli di quanto spendere e ci si può sbarazzare di chiunque ad un prezzo adeguato, senza possibilità di appello. Il primo grosso colpo alla tutela del lavoratore licenziato viene dato dalla legge 183 del 2010, il famigerato “collegato lavoro alla legge finanziaria”, autentico scempio legislativo operato dal Ministro Professor Maurizio Sacconi il quale rende facoltativo il tentativo (precedentemente obbligatorio) di conciliazione presso la Direzione Provinciale del Lavoro. Cosa vuol dire? Una volta non era possibile fare causa direttamente in tribunale dovendo transitare presso una commissione di conciliazione tenuta presso gli Ispettorati Provinciali del Lavoro, commissione in cui venivano discusse le cause per vertenze individuali e licenziamenti tra dipendente e datore di lavoro. Presenti tre persone, un rappresentante delle associazioni datoriali, un rappresentante dei sindacati dei lavoratori e un membro nominato dal Direttore Provinciale dell’ ispettorato del lavoro con il compito di spiegare alle parti la correttezza o meno di quanto successo, dissuadere pretese abnormi o illegittime, proporre ragionevoli proposte conciliative e ratificare eventuali accordi. Così i dipendenti potevano avere un mezzo gratuito per fare valere i propri diritti e i datori di lavoro potevano essere indotti a miti comportamenti, visto che pagando una buona uscita al dipendente avrebbero risparmiato le consistenti spese legali del tribunale, dell’ avvocato e forse una sentenza a sfavore. Ora, in caso di intransigenza del datore di lavoro, il lavoratore non può che accedere esclusivamente al tribunale; accesso che in ogni caso non è gratuito implicando il pagamento preventivo di una parcella ad un avvocato (per la compilazione del ricorso e il suo deposito) di circa 2’500/3’000 a cui sommare circa 400 euro di spese di deposito. Ora, il lavoratore con famiglia da mantenere, affitto o mutuo da pagare magari in famiglia monoreddito per tentare di avere giustizia dovrà obbligatoriamente spendere una quantità esorbitante di denaro togliendolo al mantenimento della famiglia: per cui è nettamente cresciuta la fattispecie dei lavoratori che, a fronte di un licenziamento ingiusto, non possono richiedere giustizia per mancanza di mezzi economici. Altra fattispecie è quella dei lavoratori che avranno diritto ad un risarcimento inferiore alle spese per poterlo ottenere: i lavoratori di aziende con meno di 15 dipendenti hanno diritto ad un indennizzo variabile da due mensilità e mezzo a sei (legge 108 del 1990) graduate in base all’ anzianità di servizio e alla gravità del licenziamento, ovvero un assunto con meno di cinque anni di anzianità o con un licenziamento non gravemente illegittimo rischia di ricevere meno denaro di quanto speso per poter avere giustizia, situazione che dissuaderà la maggior parte delle persone dal reclamare giustizia essendo l’ imprenditoria italiana costituita in maggior parte da piccole e medie imprese. Giunge la “Riforma Fornero” che va a sopprimere la maggior parte delle fattispecie di reintegra, ovvero dei casi in cui il lavoratore può ottenere la riammissione al lavoro tramite sentenza del tribunale e va a introdurre il nuovo “rito abbreviato”, ovvero un rito del tutto simile alla vecchia conciliazione, ammissibile solo nel caso di licenziamento “puro” o di riqualificazione del rapporto di lavoro: non sono pertanto ammissibili ogni altra contestazione in merito a mancate retribuzioni o atti discriminatori occorsi prima del licenziamento. In questo rito abbreviato, se in corso di dibattimento dovessero sorgere diverse motivazioni il giudice dovrà chiudere il procedimento con una dichiarazione di non procedibilità: al lavoratore non resterà che adire di nuovo al tribunale ordinario, con nuovo ricorso da presentare, con una nuova pesantissima parcella da dover pagare al proprio avvocato e nuovi tempi lunghi che rischiano di mandare in prescrizione il processo, non essendo un processo penale. Ora il licenziamento lo potranno solo impugnare i dirigenti di azienda, quelli che forse soffriranno meno la perdita di lavoro mentre le categorie deboli, quelle a basso reddito e con famiglia a carico non potranno chiedere giustizia per mancanza di mezzi economici. Ora non solo siamo stati privati di molti dei diritti acquisiti e delle tutele, ma ci è reso pure impossibile difenderci e sostenere i pochi diritti residui che non erano stati abrogati. La flessibilità, come nei paesi stranieri: ad un esame approfondito, obbiettivo ed onesto del mercato del lavoro negli altri paesi più evoluti della Comunità Europea è sì presente un meccanismo più flessibile di uscita dal mercato del lavoro, ma vi è anche un’ imprenditoria più etica e civile che non abusa dei propri mezzi in maniera arrogante. E soprattutto è prevista una flessibilità anche in entrata, in cui un agenzia statale di diritto pubblico ha il compito di ricollocare (ed eventualmente riqualificare) chi è divenuto disoccupato e corrispondere, senza limiti di tempo, una adeguata indennità per il mantenimento individuale e della propria famiglia a tutti coloro che non possono essere ricollocati e reimpiegati tempestivamente. Nei primi nove mesi del 2012 sono stati licenziati 640’000 lavoratori in Italia, praticamente tutta la popolazione di un grande capoluogo di regione come Bologna: tutta gente che, nella quasi totalità, percepirà una risibile indennità di disoccupazione per sei mesi (a fronte della quasi certa impossibilità di trovare reimpiego), ultimata la quale verranno abbandonati a se stessi. Motivo per cui la dottrina liberista nel mercato del lavoro si è rivelata totalmente fallimentare avendo prodotto la più grossa catastrofe sociale dalla nascita della Repubblica. Porvi rimedio, almeno alle necessità immediate non è impossibile bastando abrogare le leggi che inutilmente hanno demolito un sistema di tutele nei confronti dei più deboli che per cinquant’ anni ha normato bene il mercato del lavoro, nel grande miracolo economico degli anni ’70 e nel boom dell’ occupazione giovanile durante il primo governo Prodi, vecchie di qualche anno ma riconosciute a livello internazionale come un quadro giuridico giusto, corretto e congruo adeguato ad un paese che voglia ritenersi civile. Abbiamo già distrutto il futuro di molta della generazione dei trenta/quarantenni che, a parte figli di papà, raccomandati e chi è emigrato all’ estero (i più qualificati) non hanno avuto, grazie al precariato, i mezzi per comprare casa, costruirsi una famiglia e una vita dignitosa autonoma della famiglia e il presente di tante troppe famiglie italiane che non possono più garantirsi il sostentamento: fermare questo massacro è un obbligo civile e morale di tutta la politica che millanti una coscienza sociale.