COME COME? QUALCUNO HA DETTO “PIPPONE SULLA RISOLUZIONE DEL PARLAMENTO? EUROPEO
{ABSTRACT: la mozione deriva dall’allargamento a Est dell’UE; è lacunosa da un punto di vista storiografico ma perfettamente logica politicamente. Ragione per cui sarebbe il caso di mantenere separati i due piani. La ricostruzione per cui URSS e Germania avrebbero pari responsabilità nello scoppio della guerra è però storicamente errata, ai limiti dell’indifendibile} Partiamo da una questione ovvia, ma che è bene ripetere: la faccenda è molto, molto più complicata di come la mettano giù a Bruxelles. E salvo casi solari – condanna della Shoah, cose così – sarebbe bene che i Parlamenti si tenessero alla larga dalla storia. Tuttavia, quello che andrebbe sempre tenuto a mente è che le istituzioni sposano sempre (sempre) una versione oleografica e iper-semplificata della storia. Né potrebbe essere altrimenti, visto che in genere una mozione di questo tipo prelude alla costruzione di un impianto memorialistico-celebrativo che è pensato per le masse, certo non per gli studiosi che quindi troveranno sempre motivo di giusta e sacrosanta critica. Si prenda ad esempio la storia del Risorgimento e la “triade” Mazzini-Garibaldi-Cavour. O si prendano le inefficaci politiche di memoria sugli anni di piombo che, nell’ansia di restituire un quadro unificato di cordoglio, appiattiscono storie e mettono Walter Rossi insieme a Calabresi, le vittime di Bologna con Occorsio e Di Nella. La storia non è quasi mai riconducibile a categorie univoche. E questa, come si suol dire, è la premessa. Il voto ha fatto emergere – quantomeno nella mia bolla – una quantità di filosovietismo inimmaginabile. Gente che vota Pd e innalza le icone dell’Armata Rossa. È pur vero, comunque, che ancora nel 1992 Piero Ignazi nel suo “Dal PCI al PDS” raccoglieva le opinioni dei delegati al XX Congresso comunista notando una percentuale di ammiratori dell’URSS (allora al minimo storico del suo prestigio, essendo praticamente morta) molto superiore a quanto si sarebbe potuto pensare guardando all’esigua corrente cossuttiana. Anzi, il PCUS aveva tentato a lungo di creare una forte corrente “moscovita” nel PCI, addirittura si era pensato a una scissione come successe in Spagna, ma i numeri erano sempre stati tirannici. E però perché un partito che si accingeva a traslocare nella socialdemocrazia era popolato di così tanti sostenitori della “patria del socialismo”? Anche senza tradursi poi in azione politica concreta, l’ammirazione per l’Urss significava innanzitutto la fede in un sistema diverso dal capitalismo: benché fallato da assenza di libertà, controllo oppressivo e (meno grave moralmente, ma ancor più determinante per il suo crollo) inefficienze e deficienze croniche, il comunismo sovietico incarnava la possibilità di un sistema “altro”; il mito di Dubček e l’infatuazione gorbacioviana – che in Italia fu forte come da nessun’altra parte – indicavano che molti nel PCI pensavano fosse più facile “correggere” il socialismo reale che non il sistema capitalista. Circostanza resa affatto più curiosa visto che proprio il PCI fu in prima fila nella demolizione del mito della patria socialista, dicendo che la politica estera di Mosca negli anni Ottanta era “una minaccia per la pace” quanto quella americana (erano gli anni degli SS-20 e della SDI) e che il sistema sovietico non poteva essere preso a modello per costruire il socialismo in Occidente. La levata di scudi a difesa del “buon nome” della Rivoluzione d’Ottobre ci dice insomma che oggi, in quest’era di storia “memificata” (ci sto scrivendo qualcosa), l’Unione Sovietica è tornata a rappresentare una possibilità, proprio perché considerata come “simbolo” e non come fenomeno storico. Una volta dimenticati Stalin, il breznevismo, l’arcipelago Gulag, i carri a Praga e – caso terminale per il prestigio di Mosca – l’Afghanistan, rimane quindi l’«assalto al cielo», la sfida storica, l’epica rivoluzionaria. Io stesso che ora mi sto riempendo la bocca di paroloni complicati mi esalto a sentire il Coro dell’Armata Rossa (senza farlo apposta, mi trovo a fischiettare una loro marcia mentre rileggo) e canto che «Sulla sua strada gelata, la croce uncinata lo sa, d’ora in poi troverà Stalingrado in ogni città». È diverso. È un simbolo. Il leninismo come dottrina politica storicamente collocata è un conto, l’Urss come fenomeno concreto un altro. Non mi metterei mai, in una discussione seria, a difendere la validità – oggi – delle ricette sovietiche. Né in economia, né – Dio non voglia – a livello sociale. Ma oh, Stalingrado. La straordinaria vittoria contro la Germania, i 25 milioni di morti sovietici più la larghissima maggioranza dei movimenti partigiani europei: questo è, per un occidentale, il comunismo nella Seconda Guerra Mondiale (allego qualche immagine dei momenti più esaltanti). Lo disse e scrisse Bobbio ancora negli anni Novanta. Bobbio, non Cossutta. Per chi viveva nell’altra metà d’Europa, inutile dirlo, è stato altro: «Perché i cecoslovacchi amano i russi e odiano gli americani? Perché i russi li hanno liberati dai tedeschi, ma gli americani non li hanno liberati dai russi». Per buona parte dell’Europa centrale, l’occupazione sovietica ha significato passare da democrazie più o meno stabilite a un regime dittatoriale che – in particolare nei primi dieci anni – è stato molto duro. Qualsiasi mozione dunque si voglia portare a Bruxelles per condannare le dittature deve partire da qui. La mozione – è quasi banale dirlo – è la plastica rappresentazione di cosa abbia comportato a livello di costruzione europea l’allargamento a Est: si sono aggiunti Paesi con una storia completamente diversa, e che chiedono che anche la loro sia inserita tra quelle fondanti dell’Unione. E questo indipendentemente dal fatto che per gli occidentali abbia tutto un altro senso, e anche a dispetto del fatto che la minaccia, oggi, certo non è una recrudescenza del comunismo sovietico quanto quella di una “democratura” come in Ungheria. Orbán, già leader delle proteste giovanili contro il socialismo ungherese, è un anticomunista di ferro, ma certo non è un democratico (si ripropone oggi, invertita, l’accusa agli antifascisti: essere «antitotalitari» può non significare essere democratici). Oggi l’Ungheria è più vicina a un ritorno a Horthy che non a Kádár; nelle piazze, gli eversori inneggiano a Szálasi, non a Rákosi; ci si potrebbe dunque interrogare sull’urgenza di questa condanna, ma non ignorarne le basi storiche. Per le repubbliche baltiche, o per la Polonia, una stella rossa è il simbolo di un regime politico oggi condannato. E certo che quella condanna arriva più da modelli autoritari alternativi (soprattutto per Polonia e Ungheria, lasciamo perdere le povere Lettonia, Estonia e Lituania) che non da democrazie compiute. Ma è chiaro che nella condanna del comunismo c’è la condanna dell’URSS (occhio al riferimento ai monumenti russi nell’Est europeo: per i russi di oggi è un pugno in faccia) e non la storia del movimento comunista in Occidente. Se così non fosse, ci troveremmo col curioso paradosso di un’Unione che condanna alla dannazione storica il partito che ha ospitato il suo principale ideologo, Altiero Spinelli. È evidente, ma forse non è stato detto abbastanza. Si riaprono dunque in chiave di memoria pubblica le contraddizioni dell’URSS che era contemporaneamente un polo ideologico di un movimento internazionale, terra promessa e però anche nazione concreta, impero, regime. Arriviamo ora al piano storico, e alla cosa più grave che fa la risoluzione, ossia stabilire il nesso causale diretto «Patto Molotov-Ribbentrop -> Seconda Guerra Mondiale». Non serve rimandare a Taylor per dire che la matrice degli eventi non va cercata nel 1939 ma almeno vent’anni prima. Il patto, per rimanere a quel periodo, arriva a strettissimo giro dopo il mancato impegno di Gran Bretagna e Francia contro i franchisti in Spagna e soprattutto dopo la conferenza di Monaco, cui l’Urss non era nemmeno stata invitata. La dottrina di sicurezza di Stalin – poi implementata dopo Yalta e Teheran – era di mettere la maggior quantità di terra possibile tra sé e l’Occidente, nel caso specifico la Germania (cfr. storiografia pressoché unanime, per brevità Graziosi). E questo rientra non nel campo degli abomini astorici ma in una dottrina di politica estera, contestabile certamente ma non disumana. Accostare questo ai crimini del nazismo e a quelli che proprio in quegli stessi anni Stalin stava portando avanti in patria è solo fare confusione. Stalin non firma quel patto in quanto mostro assassino, né in quanto segreto ammiratore della Germania hitleriana. L’Unione Sovietica era convinta – chissà quanto a torto – che l’Occidente, in uno scontro tra comunismo e nazismo, avrebbe potuto scegliere il nazismo, e dunque si cautelava. Hitler, del resto, fino al 1939 non è certo visto come Satana nelle cancellerie, che anzi sperano di poterlo “normalizzare”. Questo è un punto cruciale. Equiparare comunismo e nazismo sul piano ideologico-filosofico è oggettivamente errato, come anche equiparare il ruolo di Germania e URSS nello scacchiere internazionale 1930-1940; anche “nazificare” il comunismo sovietico non aiuta a comprenderne gli errori né i crimini reali; considerare gli ottant’anni di socialismo in Unione Sovietica come un blocco unico – il tutto ammantato di una fosca luce omicida – appiattisce e fa più che altro confusione. L’accostamento che fece Nolte, che pure fece tanto discutere, tra nazismo e comunismo era molto più sfumato di quanto non sarebbero state le sue riduzioni giornalistiche, e prevedeva semplicemente di considerare gli anni tra le due guerre come parte di un unico generale conflitto europeo. Ascrivere infine all’ideologia quelli che furono i ragionamenti di politica estera di una nazione potrebbe portare per eterogenesi dei fini a una condanna pressoché totale dell’intera storia contemporanea. Perché l’Urss ha fatto accordi con la Germania, ma anche Francia e Gran Bretagna; gli Stati Uniti hanno riportato la democrazia in Europa ma hanno operato attivamente per cancellarla in America Latina; tutte le nazioni europee hanno avuto il colonialismo (ma anche alcune nazioni extraeuropee hanno condotto analoghe, violente politiche). Retrodatare la morale è sempre esercizio pericoloso; farlo in nome di un generico ecumenismo è grosso modo inutile. Lo si fece con il fascismo e il nazismo in quanto espressione di una ideologia che ha avvelenato una democrazia dal suo interno, costruendo un sistema di sopraffazione razziale e di guerra permanente. E questo è una sua esclusiva. I lager e la Guerra totale sono la logica conseguenza del nazismo; cinquant’anni di comunismo democratico in Occidente dimostrano che la questione dei crimini sovietici non è filosofica quanto politica, tanto è vero che la Russia oggi preoccupa per la analoga spinta espansiva che preoccupava allora, e che Putin ha di fatto superato la democrazia liberale, recuperando nel suo armamentario simbolico quella quota di URSS che parlava di una superpotenza. Quella URSS che oggi molti in Occidente difendono come “polo ideologico”, e che invece nella memoria pubblica della Russia odierna è “solo” Stato, Rodina. Insomma, in conclusione: la mozione del Parlamento Europeo è inserita in un côté ideologico ben definito, ma anche nella storia dei Paesi che oggi compongono l’Ue (non a caso il “bando” della falce e martello fu una delle primissime proposte dei neo membri baltici); non si sta dicendo – per lo meno non ancora – che i comunisti occidentali erano complici di questo disegno omicida che la mozione denuncia; il comunismo italiano è stato tra i primi a “rompere” innanzitutto a livello simbolico-politico con l’Urss (il discorso di Berlinguer a Berlino, i rapporti al minimo nel 1980-85), e pertanto richiamarsi a quella tradizione per difendere oggi l’operato di Stalin è abbastanza strano. Certo, la mozione è molto imprecisa e visibilmente politicizzata. Ma prendiamola per quello che è. Poi, ovvio, se qualcuno passa qui e mi dice che “comunisti e fascisti sono uguali” o addirittura “i comunisti erano peggio dei fascisti”, partirò a cantare “AVANTI POPOLO ALLA RISCOSSA” con voce baritonale. Ma lì siamo su un piano diverso.
