CITTADINANZA, FIGURACCE E MOLTO LONTANI RIMEDI

CITTADINANZA, FIGURACCE E MOLTO LONTANI RIMEDI

I lettori di questo blog me ne daranno atto: non ho mai creduto che il governo, il Pd e i partiti che sostengono la maggioranza volessero davvero trasformare in legge la riforma della cittadinanza per i bambini nati in Italia da genitori regolarmente insediati da molti anni nel nostro paese. Non ci ho creduto nemmeno il 16 novembre scorso, quando Repubblica titolava così, in prima pagina: “Ius soli subito legge – Ecco la prima mossa per la pace a sinistra”. E Claudio Tito, nell’articolo che sosteneva il titolo, era perentorio: “Il dado è tratto. Lo ius soli sarà legge prima che finisca l’anno. Pd e governo hanno deciso: il provvedimento sarà all’ordine del giorno del Senato subito dopo l’approvazione della legge di bilancio, ovvero nella prima settimana di dicembre”. Ma che nemmeno 50 giorni dopo quel 16 novembre, ben 29 senatori del Pd, ovvero un terzo del gruppo del partito democratico, non si sarebbero presentati in aula per la verifica del numero legale, beh, questo era francamente inimmaginabile. Uno scacco morale, prima ancora che politico. Non ci si può fidare del Pd, è la lezione amara che si trae dalla fine ingloriosa di questa riforma. Così come non ci si può fidare dei 5 Stelle. E in ogni caso, se un giorno si vorrà riprendere in mano il dossier cittadinanza, bisognerà apportare alcune modifiche al testo in discussione. Sono i tre punti che voglio analizzare in questo post. I 5 Stelle voltagabbana. Non è qui in discussione la decisione di questo Movimento di non presentarsi in aula alla conta del numero legale. Erano contrari al provvedimento e hanno usato questo mezzo estremo. Il fatto è che i 5 Stelle avevano proposto alla Camera un testo di riforma della cittadinanza per bambini e minori molto, ma molto più “avanzato” di quello governativo passato poi alla Camera e inabissatosi al Senato. L’iniziativa recava il numero 1204, la data era del 14 giugno 2013, la prima firma di Giorgio Sorial, a cui ne seguivano altre sessanta, fra le quali quelle di Luigi Di Maio, di Alessandro Di Battista, e di Roberto Fico. Un’iniziativa “di massa” , se così si può dire, dei pentastellati, condivisa dai leader. E una formazione politica che si rispetti non può sovvertire il suo intero apparato valoriale, su un punto così rilevante, nell’arco di appena quattro anni.In quel progetto, i 5 Stelle proponevano che avesse la cittadinanza italiana un bambino nato in Italia da genitori stranieri di cui “almeno uno vi risiedesse da non meno di tre anni”. La riforma fallita al Senato chiedeva invece che almeno un genitore avesse il permesso di lungo soggiorno, che si può chiedere dopo 5 anni di residenza regolare (chiedere, non ottenere) una volta superato un test di italiano e garantiti alcuni standard, abitativi e di reddito). Oppure avrebbe potuto ottenere la cittadinanza chi, entrato in Italia entro il compimento dei cinque anni d’età, vi avesse risieduto fino alla maggiore età (l’attuale legge 91 non ammette possibilità di cittadinanza al compimento dei 18 anni, per chi non sia nato in Italia). Di più: cittadinanza data ai bambini nati in Italia o entrati entro i cinque anni di vita, a patto che abbiano superato con esito positivo le elementari. Ma cittadinanza anche ai non nati in Italia e arrivati entro i dieci anni, a patto che avessero superato elementari e medie. Infine una norma di favore anche per chi sia arrivato da “grande”, ma prima dei 18 anni: superando le secondarie superiori oppure le medie e un corso di formazione professionale poteva essere italiano, secondo i grillini. Uno “ius culturae” allo stato puro. Insomma una rivoluzione, un provvedimento molto più “a maglie larghe” della riforma abortita. Se un Movimento cambia radicalmente idea nell’arco di appena quattro anni, significa semplicemente che non ha idee, né valori. La figuraccia del Pd. Primo: il partito di maggioranza non poteva e non doveva lasciare in naftalina al Senato, per più di due anni, un provvedimento che interessa 800 mila italiani di fatto ma non di diritto, già approvato in primo esame alla Camera. Secondo, gli esponenti di quel partito, che venivano a illustrarlo, sui giornali e in tv, dimostravano di non conoscerlo nemmeno. Nessuno di loro ha saputo spiegare che la condizione che almeno un genitore del bimbo nato nel nostro territorio sia in possesso del permesso per lungo soggiornanti, sia quindi ben integrato nel nostro paese, è esattamente la stessa che vige nel Regno Unito e in Germania, retti da regimi di centro destra. Impostare su questo il dibattito avrebbe avuto tutt’altro effetto. Ci sì è accaniti a invece a parlare di “ius soli”, come se una donna appena sbarcata dal barcone potesse partorire un bimbo italiano. Un grave errore, purtroppo condiviso con tante associazioni culturali, che dimostra come non si sia veramente entrati nel merito del problema. Terzo, non sono stati proposti emendamenti, per venire incontro alle opposizioni. E, infine, lo smacco dell’antivigilia di Natale, con la diserzione dei senatori del Pd. Opportune alcune correzioni. Se, con la prossima legislatura, si intende riprendere la riforma, alcune correzioni sono a mio avviso necessarie, perché la legge possa avere il consenso più ampio possibile. Non il principio base: è italiano il bimbo nato da genitori di cui almeno uno abbia il permesso per lungo soggiornanti, che è una sorta di anticamera della cittadinanza. Un genitore, insomma, che respiri una “cultura” italiana e la offra al bimbo appena nato. Se non fosse possibile ottenere questo, visto che le riforme non si fanno da soli, isi potrebbe prevedere che il bimbo maturi alla nascita, nelle condizioni descritte, il suo diritto di cittadinanza, che però gli verrebbe formalmente conferita in quinta elementare, magari con una cerimonia in classe. Penso poi che occorra qualche modifica anche alla parte “ius culturae” della riforma abortita, dove si dava la possibilità di diventare italiano a chi arrivi entro il compimento dei dodici anni, a condizione che abbia frequentato regolarmente cinque anni di scuola italiana o superato corsi di formazione professionale triennali o quadriennali. Un corso di formazione professionale è essenziale per presentarsi sul mercato del lavoro con un mestiere in mano, ma non è necessariamente un test di cultura italiana. Deve essere necessario aver non solo aver frequentato regolarmente, ma superato dei cicli scolastici, e probabilmente è opportuno anche abbassare di uno o due anni l’età di ingresso in Italia, rispetto ai 12 della preadolescenza. Lo “ius culturae” è un principio del tutto innovativo, rispetto alle altre legislazioni europee. Dovremo cercare di farlo esordire nel modo più giusto e condiviso. Ma si riaprirà davvero il discorso cittadinanza? I dubbi sono più che plausibili