IMPEACHMENT, QUANDO “TRICKY DICK” DOVETTE ABBANDONARE LA CASA BIANCA
In molti sperano che la procedura d’impeachment avviata dalla Camera dei rappresentanti Usa contro il Presidente Donald Trump abbia lo stesso esito che ebbe per Richard Nixon, costretto il 9 agosto del 1974 alle dimissioni per evitare di essere destituito. La situazione era però molto diversa, a cominciare dallo scacchiere internazionale che nell’epoca di Tricky Dick, Ric il furbetto, come era soprannominato Nixon dai suoi connazionali, vedeva il mondo occidentale diviso dal blocco comunista guidato dall’Urss e gli Usa alle prese con la sconfitta ormai certa nella guerra del Vietnam. Eppure proprio i successi registrati nel campo dei rapporti internazionali, i passi avanti nella distensione con l’Urss e con la Cina di Mao, bilanciavano la pessima opinione che gli statunitensi si erano ormai formati sulla correttezza del loro presidente in materia di politica interna. Nixon e il Watergate, un binomio indissolubile, la scintilla che cambiò per sempre le certezze dell’americano medio sull’onestà dei suoi rappresentanti e influenzò una sterminata letteratura e filmografia sulle modalità di corruzione e sugli anticorpi alla stessa del sistema politico a stelle e strisce. Perché in quella vicenda se da una parte emerse che il Presidente Usa aveva creato una sorta di servizio segreto parallelo, completamente illegale, dall’altra la pressione dell’opinione pubblica e della stampa libera, rappresentata in particolare dal Washington Post, dimostrò che la democrazia statunitense alla fine era in grado di porre fine al delirio di onnipotenza anche del suo massimo rappresentante politico. Il Watergate, da cui prese il nome lo scandalo che pose fine alla vita politica di Nixon, in realtà è un complesso di edifici a Washington, che ospita alberghi e uffici e dove aveva sede il quartier generale dello sfidante democratico George Mc Govern nella campagna elettorale del 1972 contro il Presidente repubblicano in carica. Mc Govern fu forse il candidato alla presidenza più di sinistra nella storia degli Stati Uniti e il motivo per cui venne scelto dal Partito Democratico per sfidare, quasi senza speranze, Nixon va ricercato negli scandali che colpirono in quel periodo in particolare il senatore Ted Kennedy, da molti considerato il candidato naturale del partito. Ma il fratello di John e Robert Kennedy, entrambi assassinati, rimase coinvolto nello scandalo seguito all’incidente di Chappaquiddick, in cui perse la vita la sua segretaria e lui venne condannato a due mesi di carcere, poi sospesi, per omissione di soccorso. Sfumata la prestigiosa candidatura di Kennedy, al partito democratico non rimase che giocare la debole carta Mc Govern, il cui programma elettorale era concentrato soprattutto sulla guerra in Vietnam. Mc Govern proponeva ai Vietcong di Ho Chi Min e del generale Giap, che stavano vincendo il conflitto, la liberazione dei prigionieri Usa in cambio del ritiro delle truppe americane dal Vietnam, mentre sul piano della politica interna, scossa da manifestazioni sempre più intense e partecipate contro la guerra, proponeva l’amnistia per i disertori accompagnata dalla riduzione del 37% in tre anni delle spese militari. Posizioni che non avevano alcuna speranza di trovare larghi consensi popolari perché infrangevano il mito della supremazia statunitense sul mondo. L’estrema debolezza della candidatura Mc Govern contribuì a rendere ancora meno comprensibile, dopo l’esplosione dello scandalo Watergate, l’ossessiva opera di spionaggio messa in piedi da Nixon per controllare e screditare l’esponente democratico. Era lo stesso partito di Mc Govern a cercare di frenare il più possibile l’esposizione in pubblico dello sfidante alla presidenza. Ma nonostante questo il giornalista conservatore Bob Novak nei suoi articoli scrisse che McGovern era favorevole all’amnistia, all’aborto e alla legalizzazione delle droghe leggere e nascondeva per fini elettorali le sue posizioni. Informazioni che potevano provenire solo da chi aveva libero accesso alle riunioni che si tenevano presso la sede della campagna elettorale del democratico nel Watergate, anche se inizialmente l’indice venne puntato su esponenti del partito stesso di Mc Govern, per via delle faide interne ai dem. La realtà era molto diversa. La notte del 17 giugno 1972, quattro mesi prima delle elezioni, cinque uomini furono scoperti e arrestati dopo essere stati trovati abusivamente all’interno del quartier generale di Mc Govern. Quello fu l’inizio dello scandalo Watergate. Dagli appunti e dai numeri di telefono rinvenuti nelle tasche dei cinque fu possibile risalire a un vero e proprio progetto, noto come operazione Gemstone, attivato dagli uomini di Nixon per favorirne la rielezione. I giornalisti del Washington Post Bob Woodward e Carl Bernstein, incuriositi dalle strane connessioni dei protagonisti di quella in apparenza banale effrazione con uomini vicini al Presidente Nixon, iniziarono a investigare sulla vicenda. Nonostante i numerosi ostacoli e le minacce vere e proprie ricevute per i loro articoli, le loro informazioni si rivelarono sempre esatte. Poterono contare su una fonte importante all’interno dell’amministrazione, protetta per anni con il nomignolo di Gola Profonda, che nel 2005 confessò apertamente la propria identità, l’ex vicedirettore dell’Fbi Mark Felt. L’inchiesta del Washington Post portò alla luce il più grande scandalo politico statunitense, perché oltre a dimostrare le responsabilità diretta di Nixon nello spionaggio sistematico al fine di gettare discredito sui suoi avversari politici, dai deputati del Partito Democratico ai leader del movimenti pacifisti e per i diritti umani, svelò che il Presidente aveva organizzato all’interno della Casa Bianca un sistematico servizio di registrazione di ogni singola parola che veniva pronunciata all’interno. Una notizia che scosse ancora più dello scandalo Watergate l’opinione pubblica statunitense, Nixon rifiutò di consegnare i nastri e fece licenziare per questa richiesta il Procuratore Generale Richardson. “I am not a crook”, io non sono un imbroglione, provò ad asserire con una frase rimasta celebre dinanzi a 400 giornalisti il 17 novembre del 1973. Ma ormai tutti pensavano esattamente il contrario. Alla fine pur rifiutando ancora di consegnare i nastri fece avere al nuovo Procuratore le trascrizioni di una parte dei nastri, che confermavano comunque le accuse di aver impiantato un sistema di governo incentrato su attività illegali di controllo e spionaggio interno attuate allo scopo di mantenere il potere. Inoltre mancavano 18 minuti di un nastro cruciale e Nixon tentò d’incolpare una segretaria per la mancanza, ma ormai dal vaso era traboccata la classica goccia e Il 30 luglio 1974 fu costretto a consegnare i nastri incriminati. Lentamente alcuni dei suoi collaboratori ammisero in vari processi di aver mentito alle autorità su pressione del Presidente e di aver ostacolato le indagini. La posizione di Richard Nixon era sempre più compromessa e alla voce critica del Washington Post si unirono quelle di quasi tutti gli organi d’informazione della stampa e della televisione. Il Presidente aveva mentito molte volte alla nazione. A quel punto era ormai inevitabile da parte del Partito Democratico la richiesta d’impeachment e fu convocato il Congresso per votarla, ma l’orgoglio impedì a Nixon di accettare la destituzione e la messa in stato d’accusa. L’8 agosto 1974 annunciò in televisione le sue dimissioni con decorrenza dal giorno successivo. Nixon non ammise mai, nemmeno nel suo ultimo saluto al popolo statunitense, di aver violato la legge, facendola coincidere con le decisioni del Presidente stesso qualsiasi esse fossero. Non ci sono molte analogie come si vede con la vicenda che oggi vede il rischio d’impeachment per Donald Trump. Se non per un episodio particolare che raccontò molti anni dopo la presidenza Nixon Harry Robbins Haldeman, uno dei suoi principali consiglieri. Talvolta si dice di Trump che sia “matto”, o fuori controllo. Bene, Haldeman nel suo libro di memorie, “The Ends of Power”, ricordò che proprio Nixon aveva coniato “La teoria del matto”. Si trattava di far credere al mondo e soprattutto agli avversari politici, per spaventarli e indurli a più miti consigli, che il Presidente fosse fuori di testa e capace di qualsiasi cosa. Il problema attuale è che quello di Nixon era dichiaratamente un bluff, speriamo che tra qualche anno si possa dire la stessa cosa per Trump.
