PANE AGLI OPERAI. OPPURE L’ITALIA MUORE.

Un week end in Umbria. Un’ occasione imperdibile per riposarsi un po’, salutare parenti e purtroppo per farsi inquietare da cattivi pensieri. Paese dell’ Umbria, una volta una piccola Silicon Valley dell’ elettrodomestico, tranquilla e piena di gente serena che lavorava e a cui la vita costava meno che in una grande città, tanto che in un momento di sconforto avevo anche pensato di mollare Bologna e cercare lavoro in zona in un ufficio del personale di una delle due / tre grandissime aziende locali: al prezzo di un monolocale di Bologna era possibile comprarsi una villetta confortevole e con cinquanta euro ci si riusciva a fare una bella spesa settimanale per mantenere la famiglia, non come a Bologna dove con quei soldi ci si compra poco o nulla. Ma purtroppo inesorabile giunge la crisi, e infatti le due grosse aziende della zona chiudono: una chiude una fabbrica grande quanto un quartiere di una grande città per “ristrutturazione aziendale”, termine tecnico che significa delocalizzare, andare a produrre all’ estero dove il costo del lavoro è più basso e di conseguenza i ricavi maggiori; la seconda, acquisita da una multinazionale svizzera non fa nemmeno diplomazia, visto che con chiarezza comunica che svuoterà i capannoni, sposterà i macchinari in Turchia dove continuerà ad assemblare i propri elettrodomestici di gamma medio-alta, sempre però mantenendo attentamente la percentuale di componentistica nazionale minima per poter continuare a marchiare il prodotto come “made in Italy”. Un po’ come fanno i cinesi: prodotto all’ estero ma contraffatto come “Made in Italy” perché non perda immagine commerciale, solo che i cinesi almeno in questo sono intellettualmente più onesti e meno ladri di certe multinazionali. Dieci mesi / un anno di cassa integrazione, giusto il tempo di tentare una inutile trattativa con la proprietà per tentare di scongiurare la chiusura degli stabilimenti, solo formalmente visto che il destino degli operai era già stato scritto e deciso inesorabilmente molto tempo prima. Poi il licenziamento e la mobilità: dodici mesi pagati a 850 euro al mese, ventiquattro per gli ultraquarantenni e trentasei per gli ultracinquantenni. Poi il nulla. E così, nel raggio di una quindicina di chilometri circa cinquecento persone restano disoccupate, in pratica non esiste una famiglia che non abbia avuto il suo lutto. E non solo: saltano le grandi imprese, ma salta anche l’ indotto, tutti gli artigiani che producevano componentistica e semilavorati per le grandi fabbriche chiuse e tutti coloro che prestavano servizi, come gli autotrasportatori che consegnavano il prodotto finito: i numeri reali vanno ben oltre il numero dei licenziamenti delle multinazionali, avendo prodotto nella realtà quasi il doppio dei disoccupati. I disoccupati dell’ indotto, essendo tutti dipendenti di imprese artigiane o comunque inferiori ai quindici dipendenti non hanno nemmeno diritto all’ indennità di mobilità, percependo solo l’ indennità di disoccupazione ordinaria per sei o otto mesi a 500/600 euro netti mensili , al massimo. E improvvisamente, quello che era un fiorire di case nuove costruite col mutuo e di un benessere sudato col lavoro ma a condizioni umanamente sostenibili diventa un enorme deserto: crescono i negozi (anche appartenenti a grosse catene di distribuzione al dettaglio) che chiudono e affiggono il cartello “affittasi locali” e l’ economia nel giro di qualche mese (dall’ estate scorsa ad oggi) si ferma totalmente. E il momento più sconfortante è stato quando, volendo fare spesa di detersivi e prodotti della casa a prezzi più convenienti di quelli bolognesi, siamo andati al negozio di una nostra parente. Locale nuovissimo, quattro anni al massimo di vita in un nuovo centro commerciale; entriamo e la prima cosa che si nota sono gli scaffali tristemente vuoti, con a malapena un terzo dell’ esposizione riempito di merci. Si parla con la padrona del negozio: ovviamente con la disoccupazione e la perdita dello stipendio la gente a malapena acquista i prodotti alimentari necessari al sostentamento risparmiando su ogni altra cosa e ormai il negozio fa fatica a battere più di 60/70 euro di scontrini al giorno, data la clientela ormai inesistente; entrano in pochi nel negozio, nella maggior parte gente che chiede se fosse possibile lavorare come commessa, anche solo per qualche ora la settimana. C’ è solo la titolare, dopo aver licenziato l’ unica dipendente, per altro un’ amica di famiglia: pagata l’ Imu sul locale, le utenze elettriche per mantenere le insegne accese, l’ Iva sulla merce acquistata e le imposte sui redditi, quanto avanza non è nemmeno sufficiente per il mantenimento della famiglia della padrona. Gli scaffali sono vuoti: non avendo più soldi, non è possibile nemmeno riordinare la merce al grossista; e non è nemmeno sensato farlo, anticipare denaro che non si ha solo per avere scaffali belli pieni di merce che resterà invenduta. I toni sono quelli di una persona scoraggiata; “Vedremo”. Vedremo se riusciremo a stare aperti fino all’ estate o alla fine dell’ anno, riuscendo a non indebitarci o a finire strozzati dalle tasse e dai costi di gestione. La sera si va a cena a casa di amici, una bellissima serata in famiglia: si cerca di non parlare di lavoro, nota dolente per tutti, ma inevitabilmente il discorso ci finirà in pieno: si stanno contattando parenti emigrati se altrove si può trovare un po’ di lavoro, e visto che in Italia non ce n’è più, probabilmente una decina di miei amici con l’ autunno e finito di percepire l’ indennità di mobilità emigreranno in Lussemburgo. Pochi si sono reimpiegati: le poche aziende rimaste aperte, sempre con la spada di Damocle delle spese e delle tasse da pagare assumono solo lavoratori interinali con contratti da uno a tre mesi al massimo, sempre attente a non raggiungere i fatidici trentasei mesi totali che imporrebbero loro l’ obbligo di stabilizzazione, di assunzione a tempo indeterminato degli interinali utilizzati, potendo sfruttare un bacino potenziale ricco di disoccupati che anche solo per pochi mesi di stipendio farebbe ogni cosa, rinunciando anche ai diritti minimi. Quadro agghiacciante: ma non solo per i lavoratori. Come Sergio Marchionne insegna, trasferire le produzioni all’ estero in paesi dove il costo del lavoro e gli oneri fiscali sono più bassi. Ecco la ricetta. Una volta l’ operaio italiano col suo stipendio comprava autovetture Fiat non eccezionali come qualità, anche solo per l’ orgoglio nazionale di avere un’ autovettura Made in Italy. Ora l’ operaio italiano divenuto disoccupato non cambia più autovettura, e per chi deve farlo ha molte più alternative che comprarsi una Fiat Panda che costa, con un minimo di accessori, dodicimila euro e che non è neanche più prodotto nazionale visto che le Fiat Panda è prodotta in Serbia e la Fiat 500 in Polonia. Conviene comprarsi auto tedesche, qualitativamente migliori, tecnologicamente più avanzate e più chic, visto che anche una Dacia Sandero prodotta in Romania costa superaccessoriata non più di diecimila euro e quindi risulta molto più conveniente del prodotto Fiat, sempre parlando di prodotti non “nazionali” provenienti da paesi a bassi costi di produzione. E lo stesso succederà a chi ha delocalizzato in Umbria: il lavoratore italiano che una volta poteva permettersi di spendere il 60% del suo stipendio per comprare un frigorifero supertecnologico da 800 euro o una eccellente cappa aspirante per cucina che costava il 30% del suo mensile ora non ha più soldi da spendere; e l’ operaio rumeno non spenderà sicuramente uno stipendio e mezzo per comprarsi il frigo che produce e l’ operaio turco non spenderà metà del suo stipendio per comperare la “sua” cappa da cucina, essendo prodotti troppo costosi per certi mercati in paesi in via di sviluppo. E come Michel Moore in “Roger and me” mostrava i piazzali pieni di macchine invendute di chi, dopo aver delocalizzato in Messico producendo auto a costi più bassi all’ estero e disoccupati in casa propria non aveva più chi potesse permettersi di comprarle, i nostri imprenditori furbi si ritroveranno presto i magazzini pieni di frigoriferi e cappe da cucina invendute, troppo care per i paesi di produzione e senza più un mercato in Italia non essendoci più gente che possa sostenere certe spese. Unica soluzione: pane agli operai; quando i lavoratori torneranno ad avere uno stipendio oltre che poter sfamare la famiglia e salvarsi da una catastrofe sociale, potranno tornare a comprare autovetture, frigoriferi e cappe da cucina, producendo mercato e fatturato per le aziende produttrici. E bastonando pesantemente con oneri fiscali aggiuntivi le aziende che chiudono in Italia per produrre all’ estero generando disoccupazione . Aziende che ora vengono invece premiate dallo “scudo fiscale”, la legge – truffa che fa rientrare in Italia i capitali fuggiti all’ estero e i relativi ricavi prodotti pagando una tassazione risibile, incentivando di fatto la fuga dei capitali, degli investimenti e la conseguente perdita di posti di lavoro in Italia. Solo ricreando un nuovo mercato del lavoro certo e “forte” e conseguentemente stabilità sociale e possibilità di spesa si riuscirà a ravvivare il mercato tornando (con il tempo e con buone scelte di politica economica) al benessere italiano della fine degli anni ’90. L’ unica alternativa sarà diventare parte del terzo mondo: un paese di manovalanza sottopagata e sfruttata, visto che con un Vietnam e con un’ India economie molto più in crescita di quella italiana, con una Cina che ora produce a basso costo per se stessa e non per far guadagnare gli imprenditori stranieri e con i paesi neocomunitari (Romania, Bulgaria, Ungheria, Polonia) che si stanno allineando agli standard CEE e che conseguentemente saranno sempre meno mercato di manodopera da sfruttare a basso costo, molto presto la Nike non saprà dove far cucire i propri palloni da calcio, e un’ Italia allo sfascio potrebbe essere un luogo in cui sarà conveniente impiantare le proprie produzioni.