SERENA MOLLICONE, 19 ANNI DOPO L’OMICIDIO FINALMENTE IL PROCESSO

L’omicidio di Serena Mollicone, la ragazza di 19 anni uccisa ad Arce, nel Frusinate, che tornerà nelle aule giudiziarie il prossimo 7 febbraio, è stato paragonato all’omicidio di Stefano Cucchi perché mette in cattiva luce il comportamento di alcuni carabinieri, ma è molto più grave dopo che sono trascorsi diciannove anni prima di avvinarsi alla verità e un innocente è stato in prigione ingiustamente per 18 mesi. C’è anche un suicidio di mezzo ma ne parleremo più avanti, perché la vicenda è complicata e deve essere spiegata dall’inizio. Ieri intanto il Gup del Tribunale di Cassino ha deciso di far slittare al 7 febbraio prossimo la decisione sul rinvio a giudizio dei cinque imputati per l’omicidio della ragazza, scomparsa il primo giugno del 2001 e trovata morta due giorni dopo. Nell’udienza è stata ammessa la costituzione di parte civile dell’Arma dei Carabinieri, dei familiari di Serena Mollicone e dei familiari del brigadiere Santino Tuzi, morto suicida nel 2008. Gli imputati sono l’ex maresciallo dei carabinieri Franco Mottola, la moglie Anna Maria, il figlio Marco e il maresciallo Vincenzo Quatrale. Quest’ultimo deve rispondere anche di istigazione al suicidio del brigadiere Santino Tuzi. Il papà di Serena Mollicone, Guglielmo, è ricoverato in gravi condizioni dal 26 novembre scorso, ancora in rianimazione in ospedale, a causa di un infarto. Difficile non vedere una correlazione tra la battaglia che ha combattuto come un leone in questi anni per cercare la verità e il cedimento del suo cuore proprio alla vigilia del processo. Senza il suo impegno anche investigativo l’inchiesta sarebbe stata probabilmente archiviata. La madre invece è morta quando la ragazza aveva sei anni per una malattia. Consuelo Mollicone, la sorella di Serena, manifestando una grande emozione, si è presentata comunque in aula nell’udienza poi rinviata a febbraio e si è fatta forza per raccogliere il testimone dal padre, ricordando ai cronisti che “Serena è qui con noi e aspetta da tempo questo momento”. E’ infatti principalmente a Serena soprattutto che si deve giustizia, seppur tardiva. Alcuni particolari che troverete in questo racconto sono molto crudi e li inseriamo soltanto perché necessari a comprendere la dinamica del delitto e le conseguenze per le indagini. Serena Mollicone uscì di casa ad Arce, settemila abitanti, la mattina del primo giugno 2001 alle ore 8 e non vi fece mai più ritorno. Il suo cadavere fu ritrovato il 3 giugno a Fonte Cupa, nel boschetto dell’Anitrella, distante 8 chilometri da Arce. Era una ragazza con una vita normale, capelli lunghi castani, non molto alta, un sorriso definito solare dai suoi amici, un “quasi” fidanzato, la maturità magistrale da affrontare pochi giorni dopo. La sua passione era il clarinetto, che suonava nella banda del paese. Da casa sua quel giorno si reca all’ospedale di Isola del Liri, una decina di chilometri da Arce, per effettuare un’ortopanoramica. La visita termina alle 8,50 e subito dopo la ragazza va in un forno a comprare quattro pezzi di pizza e quattro cornetti. Forse doveva incontrare qualcuno. Non è certo che abbia preso l’autobus per far ritorno ad Arce, le ultime ore della sua vita non sono ancora state chiarite.Secondo una ricostruzione del programma “Chi l’ha visto” sarebbe stata vista alle 13,15 ad Arce, ma vedremo che non è probabile. Da lì avrebbe avuto un appuntamento con il fidanzato alle 14 a cui non si è mai presentata. Per una beffa del destino Serena Mollicone, in vista dell’esame, stava preparando una tesina sugli aspetti criminologici e sociologici di un altro delitto che all’epoca sconcertò l’opinione pubblica, proprio nell’area in cui viveva la ragazza, quello del piccolo Mauro Iavarone. L’undicenne di Piedimonte di San Germano scomparve il 21 novembre del 1998 e fu rinvenuto, triste analogia, tre giorni dopo, in un bosco di salici a San Giovanni Incarico, nel Frusinate. Venne trovato seminudo e coperto di sacchetti di plastica neri, sul suo corpo 31 colpi inferti con spranga e bastoni. Il delitto, che ha visto due persone condannate una all’ergastolo e l’altra a venti anni per complicità, era maturato in un ambiente di forte degrado sociale e per questo aveva attirato l’attenzione di Serena. Questo particolare non è secondario, perché accanto al corpo di Serena verranno ritrovati i fogli della tesina ma non il cellulare né le chiavi di casa. Il cellulare non verrà ritrovato nemmeno durante l’ispezione dei carabinieri a casa Mollicone, successiva di qualche giorno al delitto, ma ricomparirà misteriosamente, subito dopo la veglia funebre, privo d’impronte in un cassetto una settimana dopo. Dopo altri dieci giorni nello stesso cassetto compare un pezzettino d’hashish. La ragazza non solo non faceva uso di alcuna sostanza, ma aveva fatto della lotta alla droga un motivo d’impegno sociale. Chi aveva le sue chiavi di casa le ha utilizzate per disseminare l’inchiesta d’indizi depistanti. Ma torniamo al pomeriggio del primo giugno. Non vedendola tornare a casa ed essendo Serena una ragazza molto precisa, il padre inizia a preoccuparsi. Chiede aiuto ai carabinieri denunciandone la scomparsa. Anche numerosi volontari partecipano alle ricerche. Il giorno dopo pubblica e attacca nei locali e per la città dei manifesti con la foto di Serena. L’epilogo purtroppo avverrà a breve. Il 3 giugno alle 12,15 un gruppo di volontari della Protezione Civile trova il corpo nel boschetto di Fonte Cupa ad Anitrella, ma va detto che il luogo era già stato ispezionato il giorno prima dai carabinieri. Inoltre aveva piovuto la notte precedente ma il corpo della ragazza era sostanzialmente asciutto. L’omicidio è quindi avvenuto in altro luogo. il corpo, in posizione supina, era scomposto, con un filo di ferro che insieme a dello scotch legava assieme le mani ai piedi. Viene trovato sotto degli arbusti, coperto con rami e foglie, dietro ad alcuni elettrodomestici rottamati e abbandonati, legata con un gomito a un albero. In testa ha un sacchetto di plastica dell’Eurospin. Ha scarponcini, leggings, una maglietta rossa e una felpa. Naso e bocca sono avvolti da numerosi giri di nastro adesivo. Per l’autopsia la morte è stata causata da asfissia da soffocamento. L’esame autoptico rivela anche che sull’occhio sinistro è presente una vistosa ferita. Probabilmente è stata tramortita con un colpo molto forte alla testa e poi soffocata. Non riesce ad appurare se sia morta in poco tempo o addirittura trattenuta immobilizzata a lungo e poi soffocata. Quel che è certo è che è morta lo stesso giorno in cui è scomparsa. Secondo la prima autopsia non si sarebbe consumata violenza sessuale sulla ragazza. Un dubbio tuttavia resta e vedremo il perché. Cominciano le indagini e cominciano davvero male. Ma proseguiranno anche peggio, purtroppo. Guglielmo Mollicone, il padre di Serena, un maestro elementare conosciuto e benvoluto in paese, durante i funerali, a cui partecipano tutti gli abitanti di Arce, viene prelevato dai carabinieri e portato in caserma. La scusa è una firma da apporre su un documento, ma l’immagine che viene data ai cittadini è che il padre sia in qualche modo sospettato. Il parroco però non sente ragioni, interrompe la funzione e aspetta per ben tre ore, tanto lo tengono in caserma, che l’uomo faccia finalmente ritorno per presenziare al rito funebre della figlia. Va detto chiaramente che a condurre l’inchiesta saranno i carabinieri, un particolare non da poco vista l’evoluzione successiva delle indagini che ne vede alcuni sul banco degli imputati. Il primo a finire nel tritacarne giudiziario è il carrozziere Carmine Belli. Ai carabinieri si affianca nelle indagini l’Unità Analisi dei Crimini Violenti della Polizia. All’epoca Belli aveva più di trent’anni e viene costruito intorno a lui un profilo da molestatore violento che al rifiuto delle sue attenzioni da parte della Mollicone avrebbe reagito uccidendola. Il pretesto è il ritrovamento di un cedolino del biglietto con l’appuntamento del dentista dove Serena si sarebbe dovuta recare dopo l’ortopanoramica il giorno della scomparsa. A questo si aggiunge lo scotch marca Gohst rinvenuto a casa del Belli, è una marca diffusissima, che corrisponde a quello utilizzato per immobilizzare Serena. Viene indagato da settembre 2002 e arrestato il 6 giugno del 2003. 17 mesi di carcere in isolamento, l’accusa aveva chiesto per lui 23 anni di carcere. Viene assolto in tre gradi di giudizio, con la procura che impugna sempre il provvedimento. Naturalmente in un piccolo paese ogni volta che entra in un bar resta ancora oggi “quello del caso Mollicone”. Ha presentato ricorso per ingiusta detenzione alla corte europea di Strasburgo. Il primo giorno di udienza del nuovo processo era in aula. “Vorrei capire perché io sono finito in carcere e gli attuali imputati sono a piede libero”, ha commentato due giorni fa all’udienza che ha portato al rinvio del nuovo processo. Ad aiutare la difesa di Belli fu il criminologo Carmelo Lavorino, un nome che ritorna spesso in questa vicenda, ma ci arriviamo tra poco. Ci sono numerosi altri sospettati in questa vicenda. Un cugino di Serena, il fidanzato, un uomo con una Golf rossa, spunta addirittura una pista satanista. La vera svolta nelle indagini però, da cui scaturisce il filone d’inchiesta che ha portato al processo in corso, si verifica il 28 marzo 2008 e poi il 9 aprile, quando a comparire dinanzi ai magistrati è Santino Tuzi, brigadiere dei Carabinieri. L’uomo, 50 anni, viene convocato come persona informata dei fatti dalla Procura di Cassino. In precedenza era stato trasferito dalla caserma di Arce a quella di Fontana Liri. Dichiara ai pm che il giorno della scomparsa, Serena Mollicone si era recata alla caserma dei carabinieri. Nessuno fino ad allora aveva colmato il vuoto di orari tra l’uscita di casa e la scomparsa. Tuzi è a conoscenza di questa informazione perché era di guardia quel giorno. Alle 11,30 suona il citofono della caserma e sostiene che a suonare fu Serena Mollicone, che riconosce nelle sue fattezze fisiche. Tuzi viene autorizzato ad aprire la porta della caserma tramite il sistema dei citofoni interni, specificando che il via libera all’ingresso era stato dato dall’appartamento privato del comandante della stazione dei Carabinieri di Arce, il maresciallo Franco Mottola, al primo piano. Serena viene fatta accomodare alle 11 del mattino dove abita il maresciallo e alle 14,30, quando Tuzi finisce l’orario di servizio, non è ancora uscita. A quel punto i magistrati dispongono un confronto tra Mottola e Tuzi. Il confronto però non si svolgerà mai. Il 12 aprile, cinque giorni dopo, il corpo di Santino Tuzi viene ritrovato privo di vita all’interno di una Fiat Marea parcheggiata vicino la diga di Arce, località Sant’Eleuterio, non molto distante dalla radura dove venne rinvenuto il cadavere di Serena Mollicone. Suicidio, concluderà l’inchiesta, un colpo sparato sul petto dalla sua pistola d’ordinanza. Diciamo subito che l’inchiesta si è conclusa ufficialmente accettando l’ipotesi del suicidio dovuto a un dispiacere amoroso. Maria Tuzi, la figlia, non si è però mai arresa e ha presentato spesso tramite il suo legale delle prove che smentiscono la versione ufficiale. Le foto scattate sul luogo del ritrovamento del corpo danno molto da pensare. Nel sedile posteriore dell’auto del brigadiere era stato rinvenuto il fodero della sua pistola di ordinanza, oggetto che, nel procedimento con cui viene archiviata come suicidio la sua morte, risulta invece nell’armadietto di Tuzi in caserma. Secondo il legale di Maria Tuzi inoltre non sarebbe stata effettuata la perizia per confrontare il proiettile rinvenuto nella macchina con quelli nell’arma del cabiniere. Infine, secondo la ricostruzione dell’archiviazione, il brigadiere dopo essersi sparato avrebbe successivamente messo la pistola sul sedile. Pistola sulla quale risulta soltanto una parziale impronta della mano sinistra mentre lui era destrorso. Un amico della vittima racconterà ai giornali che poco prima di essere chiamato in procura Tuzi gli avrebbe confidato di sapere come era ritornato in casa Mollicone il telefono di Serena. Ma con la sua morte tutte le domande sono rimaste senza risposta. Anche Maria Tuzi era presente in aula al nuovo processo e ha avuto parole di ammirazione per Gugliemo Mollicone. Non ne avute invece altrettante per il criminologo Carmelo Lavorino, che, divenuto consulente degli accusati di oggi, in un’intervista alle Iene aveva sostenuto che il padre Santino poteva aver ucciso Serena Mollicone. La Tuzi ha anche rivelato che nel 2008 Lavorino si era offerto come consulente alla famiglia del brigadiere per “dimostrare che era stato ucciso”. Anche su questo dovremo tornare, perché è chiaro che sarà la linea di difesa degli imputati. Nel 2017 il corpo di Serena Mollicone viene riesumato e viene effettuata una nuova perizia. C’è un giallo anche qui, forse però dovuto soltanto a imperizia. Non si possono esaminare l’intera zona pelvica e parte del fondoschiena, organi il cui esame avrebbe potuto accertare una possibile violenza sessuale. Secondo un investigatore non c’è mistero, gli organi non sono spariti, ma si sarebbero deteriorati a causa della cattiva conservazione, diventando inutilizzabili ai fini della nuova ricognizione autoptica. Ma la relazione della nuova autopsia ci avvia comunque alle rivelazioni più scioccanti in cui si trova la chiave di questo omicidio irrisolto per diciannove anni. La dottoressa Cristina Cattaneo, responsabile dell’Istituto di Medicina Legale di Milano, ci spiega che Serena affrontò una colluttazione di estrema violenza prima di soccombere, stordita con pugni e calci. Quando Serena cade in terra l’omicida, ma la relazione ipotizza che potesse essere più di una persona, si rende conto che è ancora viva. Allora inizia a colpirla sulla tempia con la porta dell’appartamento al primo piano nella caserma di Arce. Lo confermano i frammenti di legno tra i capelli di Serena e i rilievi fatti successivamente sulla porta. A quel punto la situazione dell’ex comandante della stazione di Arce, il maresciallo Franco Mottola, del figlio Marco e della moglie Anna diventa veramente grave. Il corpo di Serena ha parlato. Ha rivelato esattamente cosa accadde quella mattina del primo giugno 2001 nella caserma dei carabinieri di Arce, un luogo che dovrebbe tutelare la vita dei cittadini. Conclusa l’autopsia la salma viene nuovamente tumulata e si svolge un secondo funerale a cui partecipano un migliaio di persone, nonostante siano passati tanti anni. Un elemento importante per la direzione che hanno preso le indagini, in cui sono imputati dei carabinieri, arrivate al processo attuale, è che anche la perizia svolta dal Ris dei carabinieri sulla salma di Serena e sullo scotch che l’avvolgeva conferma che l’omicidio è avvenuto all’interno della caserma dei carabinieri di Arce. Nella stessa informativa del Ris viene scritto che a colpire Serena sarebbe stato Marco Mottola, il figlio dell’ex comandante della caserma di Arce all’interno dell’alloggio al primo piano. Un alterco sfociato nell’omicidio. Fermo restando che ognuno è innocente fino all’ultimo grado di giudizio, se le cose fossero andate come sostengono oggi i magistrati resta da chiarire il perché, il movente di una simile bestialità. La Procura di Cassino ha pagato il prezzo di aver affidato inconsapevolmente per anni le indagini a chi ha depistato anziché cercare il colpevole. E a questo punto dovrà riesaminare anche il “suicidio” di Santino Tuzi. Il sostituto procuratore che ha indagato fino al rinvio a giudizio delle attuali cinque persone, ritiene che Serena Mollicone quel giorno fosse andata in caserma a denunciare traffici loschi che si svolgevano in paese. Più volte il padre di Serena ha parlato dello spaccio di droga che all’inizio del nuovo secolo caratterizzava Arce. Serena, secondo Guglielmo Mollicone, era amica di Marco, il figlio del maresciallo Mottola, con cui aveva fatto le scuole medie insieme. Poi però il ragazzo cadde nella dipendenza dagli stupefacenti e il loro rapporto si deteriorò, per il motivo, dice sempre Gulglielmo Mollicone, che Marco iniziò anche a spacciare la droga. Quindi quella mattina l’alterco potrebbe essere stato intorno a qualche persona o situazione che Serena voleva denunciare, forse persone conosciute da Marco, secondo i più maligni in paese lo stesso Marco, e da questa sua volontà sarebbe poi scaturito l’alterco che ha portato all’omicidio di Serena. Dobbiamo aggiungere due cose prima di concludere questo racconto che sembra un romanzo. Gli imputati si dichiarano innocenti. Lo stesso Marco Mottola in una conferenza stampa ha dichiarato, oltre all’estraneità per l’omicidio, di essersi comportato male in passato e di aver chiesto scusa ai suoi genitori per questo. Anche il padre ha fatto sapere di non avere niente a che fare con l’omicidio di Serena Mollicone Adesso quindi inizierà la battaglia processuale e, come abbiamo già citato in precedenza, avrà un ruolo importante il criminologo Carmelo Lavorino. Il consulente per la difesa ha già anticipato la linea di difesa. Tenteranno di attribuire l’omicidio a Santino Tuzi, presente quella mattina nella caserma per sua stessa ammissione, visto che dalle schegge della porta della caserma sulla testa di Serena non si può scappare, per poi ipotizzare che il suicidio sia stato causato dal rimorso. A Lavorino però ha già replicato Maria Tuzi, la figlia di Santino tramite i suoi legali. In un nota a firma di Maria Tuzi, Fabio Tuzi e degli avvocati Elisa Castellucci e Sara Cordella si legge: “Dimentica il Lavorino che è stato prelevato il Dna di Santino Tuzi e confrontato con i reperti biologici trovato sui reperti, con esito negativo. … Non è necessario riesumare il corpo di Santino Tuzi per il confronto dattiloscopico in quanto esistono le impronte digitali agli atti, come quelle di qualsiasi militare. Risulta molto curioso che il Lavorino, che nel 2019 sostiene che Tuzi si sia suicidato per nascondere gravi segreti, sia lo stesso Lavorino che nel 2008 contatta Maria Tuzi per offrire la propria consulenza per dimostrare inconfutabilmente che Santino Tuzi era stato ucciso“. Il processo non sarà breve, come si può capire. Ma grazie alla testardaggine di Guglielmo Mollicone, quello che sembrava un caso destinato a essere archiviato come irrisolto, ma per lui era il caso della sua Serena, si avvia a individuare con certezza i colpevoli dopo diciannove lunghissimi anni.