CLIMA, COSA E’ SUCCESSO A DAVOS, COSA ACCADRA’ IN FUTURO. INTERVISTIAMO GIUSEPPE ONUFRIO, GREENPEACE
        “Dio perdona, l’uomo qualche volta, la natura mai”. E’ con questa frase, ripresa dalle parole di Papa Francesco, che inizia il nostro colloquio con Pippo Onufrio, Direttore di Greenpeace Italia, in visita alla Casa del popolo di Campobasso, ospite di un ciclo di incontri sul clima che sta ottenendo un successo di partecipazione e interesse al di là della più rosee previsioni, nella città molisana. Il tema generale è quello della sostituzione del fossile nella produzione di energia, ma il riferimento specifico va alla conclusione del summit di Davos sul clima e a quello che, secondo molti, ne ha costituito il sostanziale fallimento. Quanto meno in relazione alle questioni ambientali. E’ da lì che iniziano le nostre domande., Cosa pensi di quanto è successo a Davos, un nuovo fallimento, in analogia a quanto è accaduto a Madrid poco tempo fa? Si tratta di eventi diversi. Alla COP 25 di Madrid – un evento negoziale molto tecnico – ci si è bloccati a causa della posizione di Brasile e Stati Uniti e, per differenti ragioni, della Cina. Il tema – non risolto ancora – è quello di avere una contabilità climatica che eviti doppi conteggi e trucchi. Si può sperare che nella prossima sezione internegoziale di Berlino, in giugno, un accordo venga raggiunto. A Davos invece è un evento di discussione dove, come sempre, ha luogo una passerella. Al centro, la dialettica “intergenerazionale” tra Greta Thunberg e Donald Trump. Anche se va ricordato che nelle piazze coi Fridays for future sono scesi in campo persone appartenenti a tutte le generazioni. Le parole di Trump – sprezzanti – rappresentano il posizionamento della vecchia élite dei produttori del fossile contro chi chiede lo sviluppo su larga scala di forme rinnovabili di produzione di energia. Il punto più delicato della questione è che, mentre il vecchio sistema si indebolisce (anche in USA le centrali a carbone continuano a chiudere), il nuovo non è ancora in grado di imporsi definitivamente. La variabile tempo assume – a causa dello stato del clima – un’importanza fondamentale. Se il passaggio dal vecchio al nuovo potrà avvenire secondo una sequenza che rispetti le esigenze del pianeta in termini di emissioni, oltre a evitare il disastro avremo anche una nuova economia e più occupazione. Ma se ciò non avvenisse, i rischi cui andremmo incontro sono estremamente gravi. Nei documenti del summit di Davos WEF (World Economic Forum) è stato possibile riscontrare un interesse notevole del mondo economico verso la produzione di energie rinnovabili. In essi si parla delle possibili catastrofi naturali, dei danni che l’uomo arreca all’ambiente, delle politiche possibili in difesa del clima, nonché della salvaguardia della biodiversità. In particolare, quale ruolo ritieni possa avere il mondo della finanza in questa dialettica? La finanza potrebbe avere un ruolo decisivo più della stessa industria, a patto di smettere di fare il doppio gioco. Troppi ancora gli investimenti nelle fossili. Sta avvenendo un cambiamento – e uno scontro – anche nel settore industriale, tra chi produce elettricità e chi estrae petrolio, gas e carbone. Da una parte coloro che lavorano in settori in cui la produzione è suscettibile di un processo di riconversione. Dall’altra coloro che lavorano nel settore estrattivo e che, se non cambiano mestiere, rischiano di essere destinati a chiudere. Tu parli della chiusura di una parte dell’intero settore. In che tempi e con quali modalità ciò potrebbe o dovrebbe avvenire? Facciamo riferimento alla climatologia e a quanto viene detto nei rapporti dell’IPCC, che opera in un contesto intergovernativo e che nei suoi documenti, a partire dal 1990, sintetizza lo stato delle conoscenze (ad esempio nel IV Rapporto era largamente previsto un aumento della probabilità degli incendi oggi in atto in Australia). Ricordiamo che, a dispetto di Trump, una buona parte delle analisi è di fonte americana, come le osservazioni della Nasa una istituzione pubblica che trae le sue informazioni da rilevazioni condotte per via satellitare. L’IPCC indica l’obiettivo di dimezzare circa le emissioni globali di gas serra nell’arco dei prossimi dieci anni. In termini economici ciò significa che il mercato delle fonti rinnovabili, attualmente di 300 milioni di dollari l’anno dovrebbe crescere di in media di tre volte e raggiungere poi, entro il 2050, la cifra di 2.100 miliardi di dollari. Dobbiamo quindi rifarci all’accordo di Parigi firmato a suo tempo da Obama? Sì e dobbiamo considerarlo anche un vero e proprio accordo per la pace. Per due ragioni. In primo luogo va detto che una rivoluzione tecnologica è ormai in corso. Dal secolo del petrolio e del fossile, a dominanza statunitense, a quello del solare e delle fonti rinnovabili, nel quale giocano già ore un ruolo importante i Paesi asiatici e l’Europa. E’ in atto – ma ancora troppo lentamente purtroppo – un passaggio di epoca e, storicamente, questi passaggi non sono avvenuto in modo pacifico. In secondo luogo, l’Accordo è l’unico trattato globale che prevede un trasferimento di aiuti e tecnologie verso i paesi più poveri. Più in generale l’unica strada percorribile per salvare il clima e promuovere la pace è quella della cooperazione: invece di spendere soldi per armarci l’un contro l’altro, spendiamoli per risolvere insieme i problemi. Quindi, secondo te, ci troviamo di fronte all’incombere di un evento bellico? Il rischio c’è ma le ragioni sono solo di ordine politico. Trump non può evitare la transizione ma solo frenarne i tempi. Una volta che si realizzerà una diffusione delle nuove tecnologie – come dell’auto elettrica – non si potrà più tornare indietro. Quando ciò accadrà inevitabilmente l’era del petrolio sarà conclusa. Scusa, ma l’elettricità implica rischi di inquinamento analoghi a quelli attuali, sia pure meglio distribuiti sui territori. Non ti sembra una soluzione con vantaggi relativamente limitati? No. I vantaggi sono enormi. Occorre però considerare le cose dal punto di vista dell’efficienza nell’utilizzo delle risorse. Voglio dire che se con le auto di oggi devi consumare 100 unità di energia per ottenere 15-18 di movimento del veicolo, con l’auto elettrica consumare 100 significa ottenere più di 80. Se inoltre per le batterie usi l’energia solare il vantaggio aumenta ulteriormente. Per intenderci possiamo dire che la vecchia auto è termodinamicamente una “stufa che cammina” nella quale l’85% di quanto consumi finisce in calore. Oltre a questo va detto che, con l’auto elettrica, dotate di un motore molto più semplice e di dimensioni più ridotte, i veicoli potranno molto diversi dalle attuali automobili che sono ora e da quanto ci possiamo immaginare. E la fabbrica fordista potrà essere sostituita in parte da officine artigianali dediti alla costruzione di auto “componibili” mediante l’assemblaggio di pezzi relativamente piccoli. Tu comunque sostieni che ci sarà una resistenza “fossile”. Come si potrà realizzare e come potrà modificare l’andamento delle cose? Non può invertire la tendenza. La può però rallentare e le conseguenze potrebbero essere catastrofiche. E questa possibilità è data dal fatto che il mercato del nuovo non può ancora convertire quello precedente. Ci sono a tuo avviso delle possibili strategie in base alle quali evitare un conflitto mortale? Un’idea, già sperimentata in Scozia, Portogallo e in Francia, potrebbe essere quella di produzione di energia eolica su piattaforme galleggianti convertendo a tal fine le piattaforme petrolifere. In tal modo si potrebbe moltiplicare il potenziale dell’eolico e inoltre lo si potrebbe produrre lontano dalle coste, dove il vento tira maggiormente. Si sta studiando la possibilità di ricavare combustibile mediante una produzione che non implica aggiunte di carbone, ma attraverso modalità di sintesi (CO2-vapore estratto dall’aria più idrogeno ricavabile mediante elettrolisi dall’acqua H2O). Certo non è praticabile in paesi a clima secco, ma altrove consente una opportunità diffusa di mettere in atto un processo alternativo per ricavare metano, convertendo il tipo di produzione oggi esistente, producendola col solare dove questo costa meno come in Africa e in Medio Oriente, con grande riduzione dei costi (oggi i record si registrano ad Abu Dabi ma anche in Portogallo con costi inferiori del 65% rispetto al costo di riferimento alla borsa elettrica italiana) Vale a dire là dove c’è sole a volontà. Come ho già detto anche in questo caso la parola chiave è cooperazione. Per quanto riguarda l’Europa vorrebbe dire potenziare la cooperazione tra le due sponde del Mediterraneo. Come sarà dunque possibile risolvere le cose? Per produrre carburanti rinnovabili di sintesi occorre abbattere i costi degli elettrolizzatori (che producono idrogeno dall’acqua). Dal punto di vista tecnico è possibile ridurre i tempi riducendo anche i costi. Col solare – grazie anche alle politiche europee – si sono ridotti i costi di 25 volte negli ultimi 15 anni. Per gli elettrolizzatori bisognerebbe quello di ridurli di 5 volte nei prossimi 10-5 anni. E’ lì che possono inserirsi le politiche di incentivi della Ue, volti alla riduzione dei costi. E’ anche lì che si possono realizzare politiche di cooperazione con la Cina. Ma senza grandi accordi di cooperazione i tempi ristretti di cui parlavamo prima, non potrebbero essere rispettati. Grossi ostacoli dunque, a livello di politica internazionale. Certamente, ma anche lì la partita è aperta.Anche la Russia ha, da poco, ratificato l’Accordo di Parigi e qualche prima iniziativa sull’eolico è stata presa. In generale però si tratta di una partita trasversale tra i paesi e all’interno dei singoli paesi tra il nuovo e il vecchio (negli Usa, per esempio, la California è all’avanguardia). Bisognerà anche vedere quali scelte effettuerà la finanza nella sua politica sovranazionale di alleanze con questo o con quel settore industriale. Quale spazio potrà giocare la società civile in questa partita, secondo te, in particolare in Italia? E’ possibile che si possano realizzare scenari di protagonismo sociale. Vale a dire che si possano coinvolgere nella produzione e nel suo indotto anche delle microrealtà come le cooperative, l’industria artigianale e le stesse famiglie (come del resto già avviene). Anche la finanza potrebbe essere coinvolta nella forma di “finanza etica”. Ma servono anche i progetti di dimensioni medie e grandi. Per l’Italia va fatto un discorso particolare. Nel nostro caso è possibile ipotizzare un riequilibrio tra Nord e Sud del paese. Il meridione infatti possiede un potenziale più elevato dal punto di vista della produzione mediante rinnovabili, mentre è il settentrione che consuma di più. Bonificando il meridione dalle presenze mafiose, forse un nuovo modello è anche occasione di riscatto. Nel segno dell’ottimismo dunque, o la catastrofe è dietro l’angolo? Un cambiamento epocale con grandi rischi e grandi opportunità. Il salto tecnologico è già in atto. Tutto dipende da come sarà possibile cambiare le cose rispettando i tempi che la transizione ci impone.
